Esiste una via di mezzo? Se non ci fosse bisognerebbe inventarla, perché il pericolo è che una democrazia immatura e molto frammentaria resti schiacciata tra due categorie che hanno una natura antitetica e quindi conflittuale sempre, anche nella loro veste metalinguistica, quella che una certa cultura popolare adotta per dimostrare che tra gli opposti esiste sempre una via di mezzo. “In medio stat virtus” dicevano gli antichi, cercando di medicare le incongruenze del mondo e minimizzando la fragilità umana con tutti i suoi problemi. Era un modo psicologicamente umano per rimettere la palla al centro, evitando di ricorrere a punizioni troppo severe. La filosofia, per la maggior parte delle persone, non è mai stata scienza, non ha mai avuto un carattere cattedratico, non ha mai avuto il piglio scolastico, era semplicemente quel tipo di insegnamento empirico osservato, ascoltato e imparato quasi a memoria per vivere bene senza dannarsi l’anima. E’ stata una umanissima composizione di emozioni, sensazioni, piccole esperienze vissute, racconti ascoltati, gestualità e parole imparate da chi antropologicamente parlando godeva di un particolare ascendente caratteriale. La filosofia del vivere quotidiano è sempre stata una stupenda pagina di sollecitudini, nella quale confluivano gli errori e le conquiste positive di persone che sperimentavano direttamente sul campo il loro modo di essere nei confronti di un mondo a volte dolce e benevolo, ma anche malevolo e maleducato, un mondo che ti costringeva spesso a compiere un esame di coscienza su ciò che avevi detto o fatto. Non era umanamente possibile sfuggire a una sorta di confessione quotidiana per capire da che parte stava il torto e dove la ragione. Un tempo s’imparava spesso dai vecchi, s’imparava prendendo una sberla, andando a letto senza cena, s’imparava rispettando il prossimo chiunque esso fosse, s’imparava grazie ad alcune privazioni che ti facevano riflettere sugli errori che avevi commesso. Nella vita bisognava imparare a fare delle scelte, consapevoli delle conseguenze che avrebbero potuto produrre. Nella scienza, disciplina conclamata e istituzionalmente applicata, anche se fondata su studio, analisi e conoscenza succedevano spesso incompatibilità e contrasti, intransigenze, presunzioni, assolutismi e relativismi, tra ciò che doveva e ciò che sarebbe potuto essere, tra la lettura della realtà e la sua interpretazione, tra verità di natura dogmatica e verità meno assertive e più comodamente associabili a punti di vista di carattere personale. Nella vita dell’umanità c’è stato il tempo dell’assoluto e quello del relativo, il tempo in cui la verità era di natura monocratica e oligarchica e quello in cui si barcamenava tra aristocrazia e democrazia, ogni tempo ha avuto una sua storia, così come ogni storia è stata caratterizzata dal pensiero, dalle idee, dai piani e dalle strategie, da personaggi che l’hanno segnata con il loro stile, la loro coscienza, la loro capacità di interpretarla e di definirla. Nella storia hanno giocato ruoli fondamentali uomini e donne caratterialmente e culturalmente molto diversi tra loro, portati o a una elevata considerazione degli esseri umani o a un’assoluta negazione dei loro diritti più elementari. L’assolutismo ha fortemente condizionato la crescita interiore, quella che privilegia la conoscenza della parte più intima e spirituale della natura umana, quella che ha bisogno di un’ampia estensione comprensiva, ma soprattutto della capacità di saper entrare in se stessi, navigando nelle parti consce e in quelle inconsce, dove spesso si annidano i chiaroscuri dell’esistenza. L’assolutismo ha imposto, ha condizionato, ha trattato l’essere umano come un corpo privato della sua capacità di intendere e di volere, lo ha coaptato, reso incapace di esprimere in tutta la sua ampiezza la sua vocazione alla lettura, alla comprensione e alla partecipazione attiva, alla collaborazione, alla possibilità di estendere e di ampliare in modo libero e consapevole la ricerca della verità. Nell’assoluto la verità perdeva tutta la sua consistenza critica e cognitiva, era radicalmente al servizio di chi la possedeva anche per una sorta di superiorità economica, finanziaria e soprattutto culturale, non aveva la benché minima possibilità di potersi realizzare, di poter dimostrare quanto fosse grande e importante la quantità e la qualità dei talenti e delle risorse che gli uomini avevano ricevuto e di cui, per ignoranza, eludendone l’esistenza, non erano minimamente in grado di farne tesoro e di usarli al momento opportuno. Nella storia l’assolutismo ha innalzato torri e castelli, ha costruito miti e leggende, ma in tutto questo è venuto a mancare il diritto alla partecipazione degli esseri umani alla costruzione del loro mondo, di quel mondo di cui si sentivano parti fondamentali, impedendo così alle persone di poter credere che esistesse una vita più tranquilla e serena per tutti e ignorando che quello stesso mondo potesse anche cambiare in meglio, offrendo più possibilità a tutti di civica intraprendenza. L’assoluto si è impossessato del comando, che è diventato l’asse portante dell’assoluto stesso, grazie a un potere che ha imposto le sue regole, le sue leggi, impedendo che qualcuno potesse metterle in discussione. Nell’assoluto non c’è mai stata dialettica, non ci sono stati voci interconnesse, non c’è stata opposizione, solo autoreferenzialità, individualismo estremo, egoismo sfrenato, gli uomini dell’assolutismo venivano trasformati in prodotti di una civiltà creata apposta per fare in modo che non sorgessero antagonismi o la vocazione di qualcuno che potesse anche soltanto affermare: “Ecco il mio pensiero è questo, scusate, ma io la penso così”. Il problema prende forma, si consolida e si diffonde quando le strategie del potere assoluto si impossessano di nuove idee, di piani e strategie, di principi che diventano inattaccabili. Scuola, società civile, stato, le massime espressioni della democrazia costituzionale, prima della libertà, hanno conosciuto il terribile morbo di un’afonia imposta, senza possibilità alcuna di uscire dall’anonimato, se non con la guerra. La guerra è stata l’unica vera arma usata per ripristinare una visione più democratica dell’esistenza, dove la verità poteva diventare libertà, solo se fosse sorta da visioni e approvazioni congiunte, in cui ogni essere umano diventava protagonista insieme ad altri della propria storia e di quella della nazione o della comunità alla quale apparteneva. Prima di poter respirare a pieni polmoni il profumo delle libertà democratiche, l’assolutismo ha imperato, portandosi dietro fino all’ultimo quel credo impossibile che la verità dipendesse da una sola volontà e che nulla si potesse pensare, ambire o ricercare senza l’avvallo di quell’assoluto presuntuoso al punto di poter governare il mondo senza conoscerlo.
You must be logged in to post a comment Login