Tutti abbiamo una storia e ciascuno é la propria storia. Marion Baruch (1929), artista di fama internazionale, disegnatrice, pittrice e scultrice di mano lieve lo sa bene e lo racconta nelle interviste. La sua è una storia importante, che l’ha portata a viaggiare fin da bambina, dal paese natale, la Romania, a Israele, terra dei suoi avi, poi in Italia dove ha studiato alla Accademia di Belle Arti di Roma. Dopo altre esperienze di studio e lavoro tra Milano e Parigi, e le numerosissime mostre nazionali e internazionali, si ė stabilita infine a Gallarate, dove vive dal 2007.
In mezzo ai trasferimenti ci sono stati paesi, guerre, persecuzioni razziali, e storie che hanno spinto e modificato il suo destino. Ma non scalfito l’amore per la creatività. “Disegnavo in cantina a Bucarest sotto i bombardamenti degli alleati”. Oggi Marion Baruch continua a inseguire nelle sue opere la necessità di muovere mani e cuore, anima e intelletto in risposta a una curiosità umana, intellettuale ed estetica. Ma è anche momento di bilanci, come sta rivelando una mostra in corso a Lucerna, InnenAussenInnen (dentro fuori dentro) una retrospettiva visitabile fino al 20 di ottobre al Kunstmuseum – in cooperazione con altri musei e il MaGa di Gallarate, luogo prediletto delle sue installazioni- dove sono presenti momenti fondamentali del suo percorso artistico: fin da quando avvicinava e frequentava esponenti delle avanguardie del dopoguerra, di Fluxus, della Pop Art e molto altro.
La Chambre vide (la camera vuota) e Tapis roulant , temi portanti del suo percorso oggi riproposti nella città elvetica, sono stati al centro di mostre che l’hanno condotta in passato a Parigi. Furono momenti significativi, che le piace definire di fantasia e magia, di un’arte nomade e socializzante insieme.
Nella prima installazione a dominare era il vuoto, lo spazio da riempire: con le presenze umane, simile a una tenda, forse -azzardiamo- come quella di Lawrence nel deserto d’ Arabia, austera tenda di fustigazione, di riflessione, ma anche più banalmente di rilassante chiacchiericcio, quando onde di aria più leggera fanno velo a lacune infinite di silenzi.
Nella seconda, a muovere il gioco della rappresentazione d’artista è il bisogno totalizzante, sempre più attuale, di essere lanciati altrove verso nuovi mondi e altre genti.
Pieni e vuoti, spazi di una scultura sublimata in fantasmiche presenze di brandelli di abiti, oggetti forse dimenticati da un viaggiatore che espone gli indumenti, spoglie della sua anima nuda, allo sguardo dell’altro. E ricerca di conferme, di condivisione, di seduzione, ma persino di disapprovazione da parte di un occhio altrui, che scruta, indaga, mentre credi di nascondere, o cerchi di dipanare, i garbugli dell’anima proiettati in un tessuto trasparente di nylon; Baruch è tutto questo, e molto altro ancora.
La casa studio di Gallarate, dove ha vissuto, lavorato e cresciuto i suoi tre figli, è zeppa di ricordi e di oggetti: scatole, etichette, strappi di tessuti. Sono scarti dell’industria tessile, da lei appositamente cercati, che rivelano da subito il destino di ogni pezzo che andrà a prendere vita in una prossima mostra. É insomma questa casa il contrario di quanto ogni mostra di Marion ci fa vedere: dove è il vuoto, non il pieno, a dominare. E le sue installazioni filiformi di pezzi di tessuti sono lì per rispondere a una idea d’artista pensata e ripensata ma anche a segnare il territorio di un’anima nel percorso del vuoto.
Potrebbe essere che le tante valige fatte e disfatte, i tanti indumenti piegati e trasportati per il mondo siano sublimati in quelle trame leggere di tessuti che attraversano le stanze museali vuote rivisitate da Marion come nelle fiabe di Perrault , dove le tracce di minuscoli sassi guidano i personaggi fuori dalla selva, verso la strada di casa. La strada insomma del vero, del non contrattabile. Alla verità, raccontano le sue installazioni, ci si avvicina togliendo stratificazioni da oggetti e discorsi, dissolvendo conurbazioni di pensieri avvitati nel dubbio macinato da anni.
Così per Marion il destino sembra essere sempre quello di riprendere in mano la sua valigia di donna e di artista, non più però quella riposta sull’ armadio, ma il bagaglio della fantasia. Che non conosce tappa definitiva e richiede conferme sempre nuove alla curiosità dell’ altro.
Anche nel reticolo delle sale della retrospettiva Dentro Fuori Dentro , che è poi la summa di una vita, ognuno può scegliere il suo percorso entrando, uscendo e rientrando da una sala all’ altra come gli pare. E si ritaglia un doppio ruolo di visitatore e creatore che nel gioco creativo di Baruch è sempre stato presente, fin dal 1990, quando registrò un marchio presso la Camera di Commercio di Varese, Name Diffusion, sotto cui raccoglieva la sua creatività e le idee di altri interessati con lei a nuove esperienze d’ artista.
Le sue opere possono dunque definirsi, come sottolineano anche i curatori della mostra di Lucerna Fanny Fetzer e Noah Stolz, opere politiche, in senso lato, cioè pensate e collocate in spazi di assoluta libertà . Che, se ci ricordano ancora l’ interesse dell’ artista per le Avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta, sottolineano però anche la piena adesione al presente di Marion, una costante che le ha permesso di essere attenta e partecipe testimone del suo tempo. In quanto donna, artista, cittadina -impegnata spesso in prima persona- di un mondo che ha avvicinato, amato, criticato e sostenuto, quando necessario, anche nei fondamentali diritti.
Le ultime installazioni segnano ironicamente il senso del tempo che trascorre, rappresentato dai medicamenti mai usati da Marion in precedenza, che ora invadono la Chambre Vide. Snobbati in passato dall’artista, oggi le sono indispensabili compagni di viaggio, nel flusso perenne della vita, e richiamo alla ineluttabilità di una limitatezza che chiude ogni spazio.
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