Nel corso della mia lunga carriera d’insegnamento/apprendimento, consapevole che gli studenti, in quanto giovani, sono “ignari di sé e del mondo,” secondo la pregnante definizione di Stendhal, ho sempre cercato di renderli consapevoli di sé e del mondo, sviluppando in loro un’adeguata capacità critica e autocritica. Ma in questa mia attività didattica spesso ho incontrato l’ostilità dei colleghi che non guardavano di buon occhio il mio operato. Addirittura anni fa, un giorno, uno di loro arrivò a dirmi: “la devi smettere di rendere critici gli studenti, noi dobbiamo muoverci avvolti nelle nebbie e tu vuoi squarciarle portando la luce in mezzo a noi!”. Eppure non facevo nient’altro che attuare un principio pedagogico caro a Gramsci, che voleva che gli insegnanti rendessero i propri allievi critici e in grado di controllare criticamente la loro attività educativa. Questo era, per il pensatore sardo, il modo più sicuro di educare gli studenti e farne futuri cittadini liberi, avvertiti, responsabili eticamente e critici con l’operato dei propri dirigenti politici.
Non perdevo occasione durante le mie lezioni per ricordare ai miei allievi che lo spirito critico non è dato una volta per tutte, ma è una capacità che deve essere sempre alimentata, ed esige la continua vigilanza, perché i manipolatori e gli affabulatori sono sempre più abili nel raffinare le tecniche di manipolazione.
Non li volevo ingenui, ma nemmeno pregiudizialmente ostili a chicchessia, e spesso ricordavo loro di seguire l’ammonimento del Vangelo e di essere quindi: “Prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. Cioè prudenti e non ingenui e sempliciotti, ma circospetti e vigili in modo tale da non cadere nella rete di male intenzionati. Perciò mi preoccupavo che agissero con purezza d’intenzione, e senza falsità alcuna. Li invitavo pertanto a non dare nulla per scontato e a dubitare di tutto e di tutti, e soprattutto, a diffidare di imbonitori e manipolatori di coscienze, incominciando da me e da quello che io dicevo loro. Cercavo di instillare giorno per giorno un sano dubbio metodico che riassumevo nel detto cartesiano: “De omnibus dubitandum est,” motto del resto fatto proprio da Karl Marx. Li tenevo sempre sulla corda, vigili e critici e raccomandavo loro continuamente il “Caute” spinoziano; ma appena li vedevo rassicurati e pronti a seguirmi in tutto, gli rifilavo qualche polpetta avvelenata e li spiazzavo, mostrando loro come fosse ancora troppo facile ingannarli e prendersi gioco di loro.
Per renderli sempre attenti e avvertiti leggevamo i quotidiani e analizzavamo lo stesso avvenimento confrontandolo con testate di diversa tendenza e orientamento politico; registravo loro generalmente una volta a settimana i TG italiani e stranieri, mettendoli a confronto tra loro; analizzavamo spot pubblicitari, decodificavamo vignette politiche e no, spezzoni di film novelle del Boccaccio dove erano all’opera furbastre e furbastri di ogni sorta che ingannavano ignari mariti o giovani sprovveduti ; e scaltri seduttori senza scrupoli, che seducevano ingenue fanciulle; frati imbonitori pronti a spacciare, ad ignari contadini, comuni penne di pappagallo per quelle dell’‘agnolo Gabriello’.
Mostravo agli allievi le tecniche più elementari e quelle più complesse e sofisticate di seduzione e manipolazione del linguaggio multimediale, mettendo in luce i messaggi subliminali e raccontando loro anche aneddoti personali ecc. Uno degli aneddoti più efficaci, che andava per la maggiore e li colpiva di più, invitandoli a vigilare, riguardava un comizio politico un po’ particolare, tenuto da me, con il quale mostravo loro come può essere gestito a sua insaputa un individuo.
Raccontavo loro che si era agli inizi degli anni Settanta e io ero impegnato, come altri dirigenti del mio partito, il PCI a fare comizi. Una domenica mattina dovevo parlare nel mio paese: Francavilla al mare, in Abruzzo, in provincia di Chieti, nel piazzale Sirena.
Non molti oratori amavano parlare in quella piazza dal balcone antistante il Palazzo Sirena, perché si parlava dall’alto e abbastanza distanti dal pubblico e questo rendeva non poco problematico il comizio e a ogni buon conto non favoriva né chi doveva parlare né conseguentemente la buona riuscita dell’iniziativa medesima. Quella mattina la piazza era piena e seguitava a venire gente, i vigili avevano sbarrato gli ingressi laterali per impedire l’accesso alle auto. Se qualcuno avesse voluto abbandonare la manifestazione prima del tempo sarebbe quasi certamente passato sotto il balcone tra la prima fila del pubblico e l’oratore, disturbando in modo significativo il comizio.
La manifestazione all’ora stabilita ebbe inizio. Mi presentò un giovane e vedevo che faceva una certa fatica ad attirare l’attenzione dell’uditorio, così mi cedette quasi subito la parola.
Chi ha esperienza di comizi sa che in genere il microfono, specialmente all’aperto, ha un effetto inibitorio, se non paralizzante per l’oratore, poi se il pubblico è distante molti metri da chi parla occorre una consumata esperienza oratoria per allacciare un feeling con i partecipanti.
Allora i comizi politici – la guerra del Vietnam era in corso – seguivano generalmente uno schema fisso: si cominciava col parlare della situazione internazionale, poi si passava a quella nazionale e se c’era tempo a quella regionale e locale. Anch’io avevo esordito, richiamando la guerra nel Sud-est asiatico, dando “la nostra più convinta solidarietà al popolo vietnamita che stava combattendo una giusta guerra di liberazione contro l’imperialismo americano, che bruciava con il napalm risaie e villaggi, lontani migliaia di chilometri dalle coste americane”…
Ero riuscito a rompere il ghiaccio, vincendo i primi momenti d’incertezza e a ottenere l’attenzione del numeroso pubblico, quando notai che da dietro, a ridosso del muretto che separava la linea ferroviaria, delle persone si stavano allontanando dal comizio. Mentre seguitavo a parlare tutto infervorato mi accorsi che il gruppetto era guidato da un invalido di mia conoscenza, Antonio si chiamava, in attesa da lungo tempo, a causa di intralci burocratici, della sua pensione di invalidità. Antonio e i suoi amici e parenti, a comizio appena iniziato, si accingevano a passare tra la prima fila del pubblico e l’oratore sul balcone, disturbando in modo significativo la manifestazione quasi a voler far capire che a loro di quel comizio e tantomeno del Vietnam non importava proprio nulla.
Era una cosa che non potevo permettere assolutamente. Sapevo, come ho detto, che aspettava da tempo che lo Stato gli concedesse una pensione di guerra ed allora, con un volo pindarico, passai immediatamente dal napalm sulle risaie asiatiche e sui partigiani vietnamiti, alle bombe sganciate dai nazi-fascisti sui monti del nostro Abruzzo… “Come non pensare in questo momento alle vittime civili, ai nostri eroici partigiani che hanno combattuto eroicamente in difesa della libertà nelle colline di questa ridente cittadina, che hanno visto la distruzione delle loro abitazioni, subito la perdita dei loro cari, le mutilazioni…” Di colpo, come per incanto, il nostro “amico,” come se venisse risucchiato da una calamita, si rimise al suo posto insieme ai suoi compagni e cominciò ad applaudire freneticamente.
Lasciata la guerra vietnamita, cominciai ad affrontare il problema della crisi nazionale, parlando degli scioperi operai della Fiat: “E quegli operai che scioperano per i loro sacrosanti diritti…”
Stavo trattando questa tematica da un paio di minuti quando il “nostro amico,” insieme al gruppetto, si rimise in moto intenzionato ad abbandonare di nuovo, per la seconda volta, il comizio. Allora senza perdermi d’animo, e continuando nel mio ragionamento, aggiunsi:“ E mentre ricordo gli operai della lontana Torino che scioperano contro paghe di fame e/o aspettano ancora che venga loro pagata la meritata pensione; non posso in questo momento non pensare ai tanti nostri compaesani che non hanno ancora ricevuto dallo Stato la pensione per i danni di guerra, a causa di imbrogli burocratici e giuridici scandalosi …”.
Di colpo, come in un film riavvolto all’indietro, Antonio e i suoi amici e parenti ripresero il loro posto e si rimisero assorti ad ascoltare.
Il comizio finì e in tanti vennero a complimentarsi e tra questi anche il nostro “amico”.
Mi abbracciò e baciò calorosamente e non mi voleva proprio lasciare andare poi in dialetto mi disse: “professò, glielo debbo proprio dire: per due volte stavo per andarmene e per due volte sono tornato in dietro; mi avete commosso quando avete parlato della lotta partigiana della distruzione di Francavilla, della Maiella e delle persone che aspettavano la pensione; meno male che non me ne sono andato, che bel comizio mi sarei perso!”. “Anto’, ma davvero – dissi – te ne stavi proprio andando? mica me ne ero accorto…”.
A conclusione dell’aneddoto solevo ricordare che quella mia manipolazione era stata fatta a fin di bene, volevo che la manifestazione preparata con tanto impegno dai militanti non venisse turbata in nessun caso e andasse a buon fine e volevo che Antonio e i suoi amici ascoltassero il comizio sino all’ultimo, certo che la loro coscienza di militanti ne avrebbe tratto giovamento; ma parimenti sentivo il dovere di invitare i miei allievi a essere sempre più vigili e a diffidare della “verità confezionata,” leggendo il bel libro di Vance Packard: “I persuasori occulti,” un saggio di quasi cinquanta anni fa, ma che può insegnare ancora oggi ad aprire gli occhi e difendersi dai manipolatori.
Ma con i tempi che corrono oggi, in un mondo percorso da divergenti forme multimediali di comunicazione, le tecniche di manipolazione di cui si servono gli imbonitori della peggiore risma che scrivono sui quotidiani e/o affollano i talk show televisivi, sono diventate più raffinate e complesse; urge perciò che la scuola adegui gli strumenti critici, se vuole preparare una cittadinanza avvertita, consapevole e all’altezza dei problemi del Terzo Millennio.
Nella foto: Il piazzale Sirena, di Francavilla al mare. In alto il balcone. Foto tratta da L’amico del popolo, durante il Carnevale francavillese. In occasione di manifestazioni politiche però i cittadini non occupavano normalmente lo spazio sotto il balcone, ma venivano posizionati a metà piazza, pertanto la distanza tra l’oratore e il pubblico diventava come si può vedere considerevole.
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