Spesso si parla di qualità della vita componendo più indici di valutazione oggettiva: la distribuzione dei redditi; i molteplici parametri ambientali; l’efficienza, l’accessibilità e la diffusione dei servizi sanitari e assistenziali; i vari ambiti delle literacy (le conoscenze, le capacità e le competenze acquisite), e via elencando. Altri parametri strettamente soggettivi come l’appagamento dei bisogni, il benessere della persona e la felicità, non sono misurabili né attribuibili a un habitat più o meno favorevole. A metà strada si situano altri indici di tipo soggettivo e qualitativo, ma approssimabili a qualche scala di misura. In questi ultimi si situa la sociabilità, intesa non come tendenza degli esseri umani a convivere entro una rete di relazioni sociali (o eusociali, nel lessico di un grande teorico dell’evoluzione, Edward Wilson), bensì come insieme di opportunità che un territorio offre ai suoi abitanti, stabili o temporanei, per incontrarsi, socializzare, instaurare rapporti e intrecciare esperienze di vita che oltrepassano le barriere di età, genere, provenienza, acculturazione e disponibilità economiche e che riducono gli ostacoli psicologici alla comunicazione interpersonale.
Ovunque le metropoli offrono più opportunità e attrattive dei piccoli centri periferici, ma non per questo le periferie metropolitane sono forzatamente condannate all’inerzia e alla reiterazione di stili di vita poveri di socialità come le compere, i bar di moda dove estenuarsi nelle unhappy hours con olive, patatine e pizzette e nelle notti sempre uguali del fine settimana, la presenza atomizzata a qualche spettacolo o le consuete cerchie amicali. La sociabilità non è né un’offerta di mercato, né un peculiare tipo di consumo, né un modo banale di trascorrere il tempo in luogo della solitudine; è semmai una rete fluida di occasioni che, nel loro consolidarsi, consentono una formazione e un arricchimento permanenti.
Spesso nei centri periferici le occasioni nascono a monte in ambiti predefiniti (la scuola, l’università, il luogo di lavoro, il vicinato), mentre nelle aree metropolitane i rapporti istituiti da trascorse o presenti condivisioni, essendo più flebili, lasciano il posto a incontri estemporanei in ambienti più informali e occasionali. In ambedue i contesti gli spazi tendono a divenire la temporanea ricaduta di una sociabilità virtuale che sostituisce la conoscenza reciproca con la reciproca ostensione di sé: mondi nei quali la fame di relazioni è paragonabile a quella di un bulimico costretto a saziarsi con un numero potenzialmente illimitato di briciole.
L’ospitalità dello spazio è da sempre la condizione essenziale della sociabilità. Un’aia rurale, una piazza, una via dove camminare piacevolmente, un porticato, un giardino, un caffè non sono mai stati luoghi sottratti al flusso della vita: ne sono anzi stati, e spesso ne sono ancora, il tratto essenziale. A maggior ragione ora che la qualità della vita è, e sempre più sarà data dal tempo per sé, dalla sua libera disponibilità: un tempo non soffocato da lavori scarsamente remunerativi in salari o redditi, né ridotto a svago, ma ben speso in termini di soddisfazione, gioiosità, affetti e scambi riflessivi.
Ogni spazio degno di questo nome è un tempo di sosta, di ritualità, di confidente consuetudine o di stupefacente scoperta, un luogo permeabile che assorbe e restituisce, non un transito, un attraversamento anonimo o un vuoto a rendere momentaneamente riempito. Il desiderio di socialità è un’enorme risorsa nella vita di un territorio. Ma il desiderio non nasce mai dal nulla, non è solo un dirigersi-verso ma altresì il venire intercettato in un’orbita che offre un movente, un oggetto, un corpus simbolico.
Vi è un’urgenza civile e politica in tutto questo. Periferie senza vocazioni, prive di elementi che facciano la differenza rispetto ad altre in termini di attrattività e desiderabilità, hanno poco o nulla da offrire a chi vi vive; e in questo stato di depauperamento non possono che (quando va bene) languire nel loro stato letargico, nel loro ripetersi sempre uguali.
A Varese come in altre periferie metropolitane si parla molto di rigenerazione urbana. Non si tratta solo di agire per ritagli di aree: si tratta altresì di agire puntualmente lì, là e qui, con microprogetti che possono via via formare un mosaico ricomposto e leggibile. Ma ancora vi è carenza di suggestioni, interventi, incentivi e scelte coraggiose che spezzino consuetudini ormai improduttive, grigi equivalenti di povertà sostanziali, come la sottrazione alla sociabilità (e alla diffusa ricchezza indiretta di tipo qualitativo che essa crea) di aree vitali, a esclusivo vantaggio di un transito continuo di scatole di metallo. La riconquista dello spazio pubblico mediante una più ampia pedonabilità è la prima condizione per riavere tempo e migliorare la vita. È l’esatto opposto di quel che chiedono le destre radicali assemblate in una sterile opposizione nel Consiglio Comunale di Varese. Ma non è nemmeno quanto atteso, con il dovuto vigore, da chi governa.
Serve una pedonalizzazione coraggiosa e tempestiva che investa l’ultimo tratto delle vie Rossini e Dandolo, il primo tratto delle vie Robbioni e Bizzozero, le vie Como, Morosini, Orrigoni, Dazio Vecchio, Mazzini, Foscolo, Magatti, Bagaini, Volta, Marcobi, Carrobbio, Del Cairo, Indipendenza, Vetera e Speroni e le piazze XX Settembre, Monte Grappa, Ragazzi del ’99, Motta, Beccaria e Tribunale, con una riqualificazione nelle pavimentazioni, nell’arredo urbano e nelle alberature. Il centro diverrebbe un continuum spaziale attraversabile a piedi in una decina di minuti, e potrebbe assorbire i ritagli in abbandono e degrado.
Se si farà presto, tra novembre e aprile vi sarà modo di sperimentare l’esito sulla vivibilità e la sociabilità del centro storico. Sono ottimista. I varesini sono migliori del cliché con cui le destre li dipingono. Desiderano stare bene. E anche se fossero rimasti gli sparagnini di qualche era fa, sanno che a piedi o con i mezzi si guadagna tempo e risparmia danaro.
C’è infine una sfida che attende non chi amministra la città quanto i suoi imprenditori: la riapertura del bar Zamberletti. Un ingaggio simbolico tra collasso e ripresa, tra un triste squallore e un timido cenno di risveglio da un pluridecennale torpore.
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