“Per fare il pane ci vogliono nove mesi” disse il padre. “A novembre il grano è seminato, a luglio mietuto e trebbiato”. Il vecchio contò i mesi: “Novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio. Fanno giusto nove mesi. Per maturare l’uva ci vogliono anche nove mesi, da marzo a novembre”… “Nove mesi?”, domandò la madre. Non ci aveva mai pensato. Ci vuole lo stesso tempo per fare un uomo. (Ignazio Silone, Vino e pane).
La natura e l’umanità sono sorelle, anche nei ritmi della vita. Purtroppo una di queste sorelle, che pure è più alta e sapiente, si rivela spesso ottusa e insensibile e non riesce più ad amare e rispettare l’altra compagna né sa stupirsi per il “miracolo” della vita.
Il padre e la madre del romanzo di Silone ci ricordano, invece, l’antica necessaria armonia e continuano: “Il pane è fatto da molti chicchi di grano. Perciò significa unità. Il vino è fatto da molti acini d’uva e anch’esso significa unità. Unità di cose simili, uguali, utili. Quindi anche verità e fraternità sono cose che stanno bene insieme”. È lo stesso messaggio che ha voluto lasciarci Gesù nella sua Ultima Cena, proponendosi non di governare l’uomo attraverso un codice di leggi esterne, ma di unificarci in lui col dono della sua vita.
Dio non chiede più sacrifici, ma sacrifica se stesso; non versa la sua ira, ma versa ‘sui molti’ il proprio sangue, santuario della vita. In quella sera, cibo vita e festa sono uniti da un legame strettissimo. Spesso abbiamo vissuto l’ultima Cena come una triste anticipazione della passione incombente, mentre Gesù ha fatto il contrario: ha trasformato la cronaca di una morte annunciata in una festa, una celebrazione della vita.
Quella cena prefigura la resurrezione, mostra il modo di agire di Dio: dentro la sofferenza e la morte, Dio suscita vita. E Gesù ha simboli e parole ad indicare la sua morte, ma soprattutto la sua infinita passione per la vita: Questo è il mio corpo, prendete; cioè vivetene! È come una dichiarazione d’amore: “Io voglio stare nelle tue mani come dono, nella tua bocca come pane, nell’intimo tuo come sangue, farmi cellula, respiro, pensiero di te. Tua vita”.
Qui è il miracolo, il batticuore, lo stupore: Dio in me, il mio cuore lo assorbe, lui assorbe il mio cuore, e diventiamo una cosa sola. Lo dice benissimo Leone Magno: partecipare al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo. Vuole che nelle nostre vene scorra il flusso caldo della sua vita, che nel cuore metta radici il suo coraggio, perché ci incamminiamo a vivere l’esistenza umana come l’ha vissuta lui.
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