-Caro Mauro, quella volta che…
“Caro Massimo, quella volta che andai allo stadio di Masnago, ed era la mia prima, a veder giocare il Varese”.
-Anni Sessanta…
“Inizio anni Sessanta, credo di ricordare. Varese in competizione per essere promosso alla serie C, avversario la Sanremese. Partita appassionante. Il loro portiere, un nostro ex, parava tutto. Finché cedette: 1-0 e facemmo il gran salto”.
-Fu l’inizio d’anni bellissimi…
“Bellissimi prima, meravigliosi poi. Prima, cioè in C. Tempi di Cicci Ossola, Traspedini, Vetrano, eccetera. Soprattutto di Pasquina, un terrificante battitore di punizioni. Una penna elegiaca l’avrebbe accreditato d’un sinistro di dio. Quando s’apprestava al tiro davanti alla barriera, ci alzavamo in piedi pronti all’esultanza: era pressoché sicura”.
-Hai detto prima. E poi?
“Poi in B, il nuovo prestigioso balzo. Premessa: tutto accadde, l’abbiamo già raccontato in queste chiacchierate, grazie al mecenatismo di Giovanni Borghi. Molti soldi, molta intelligenza, molta visione. Seppe circondarsi dei collaboratori giusti. E ottenne grandi risultati”.
-Un nome?
“Uno dei più importanti: Alfredo Casati”.
-Il manager preso dal Simmenthal Milano, squadra di basket…
“E che portò la cultura dell’imprenditoria sportiva a Varese. Fu lui a pescare Pietro Anastasi in Sicilia, giocava nella Massiminiana. Sarebbe diventato un fenomeno, pur se quando arrivò qui, molti storsero il naso”.
-La B, e infine la A: il traguardissimo…
“E siamo nella seconda metà degli anni Sessanta. Storia risaputa, ma ciascuno conserva le sue non sempre risapute emozioni”-
-Quali le tue?
“Un entusiasmo che ti prendeva la domenica e ti scortava tutta la settimana. Diventava parte di te. E ne eri orgoglioso. Varese, che aveva goduto negli anni precedenti di vari titoli in campi diversi, ora guadagnava la ribalta nazionale grazie al calcio e al basket. Era motivo di gratificazione. Capitò che fossi direttore dell’Azienda autonomia di soggiorno a partire dal ’68 e posso testimoniare che i successi sportivi rappresentavano un valore aggiunto per la città”.
-Il ricordo più bello?
“Il 5-0 alla Juve, 4 febbraio del ’68. Tripletta di Anastasi e a completare il cappotto Leonardi e Vastola. Uno spettacolo straordinario, Heriberto Herrera affranto sulla panchina bianconera. Fu l’anno magico, tenemmo per qualche giornata perfino il secondo posto in classifica, per concludere settimi. Battemmo grandi squadre a ripetizione, compreso il Milan a San Siro, in un’epica sfida. Dico epica volutamene enfatizzando. Perché questa memoria merita l’enfasi”.
-Era il Varese di un monumento, Armando Picchi…
“L’Inter lo mandò via immaginandolo ormai alla frutta. E invece fu il pilastro del Varese. Attorno a lui Sogliano, Maroso, Dellagiovanna, Tamborini, Cresci, Mereghetti, tanti altri. In panchina Bruno Arcari, che ne sapeva più di celebrati tecnici”.
-Il rimpianto fu di non avere in quel Varese Gigi Riva, che venne scartato dopo un provino, in anni precedenti…
“Le voci raccontano che Puricelli, allenatore del tempo, lo rifiutò perché aveva solo il sinistro. O forse lo rifiutò uno che non era Puricelli. Riva non ha mai voluto confermare il perché del no”.
-Raccontò in un’intervista che gli andò male il provino poiché la sera prima aveva fatto tardi giocando senza scarpe a Leggiuno, e si presentò a Masnago con le fiacche ai piedi…
“Chissà. Forse una dichiarazione dovuta al suo riservato orgoglio”.
-Si prese la rivincita vincendo qui 6-1 col Cagliari…
“E realizzando tre gol. Salvo che in quella circostanza, quando la mise dentro in entrambe le porte, per il resto il Riva in trasferta a Varese si segnalò per una curiosità: faceva gol solo nella rete che guarda verso il Sacro Monte”.
-Quasi una benedizione della sua classe…
“Ma sì, pensiamola a questo modo. Riva è stato eccezionale. Come giocatore, come uomo. Ben diverso da un sacco di calciatori d’oggi”.
-Non ti piacciono?
“Assolutamente, a parte qualche eccezione. Passano ore a farsi acconciare bizzarramente dai parrucchieri, a moltiplicare i tatuaggi sulla pelle, a dedicarsi al superfluo, al vacuo, all’esagerato. Un cattivo esempio per i giovani”.
-Col Varese hai smarrito il feeling, immagino…
“Da molti anni. Il calcio sopravvive in me a ragione d’una passioncella per la Lazio”.
-Tradizione familiare?
“Sì. Un mio lontano zio fu tra i fondatori del club, nel 1900. E vi giocò pure. Si chiamava Mario Raffo”.
-La lazialità è roba cruciale a Roma…
“Una condizione che determina infinite scelte. Perfino quelle d’amore. Mia cugina Marina raccomandò a Giulio, che sarebbe divenuto suo marito, di dire al futuro suocero ch’era tifoso della Lazio. In caso diverso, l’avrebbe presa così male da mettere in forse l’okay nuziale”.
-Per chiudere: il calcio non è tra i tuoi pensieri principali…
“Non lo è mai stato, tranne il periodo varesino citato più sopra. Trattasi d’un gioco anziché d’uno sport, perché talvolta vince il più fortunato e non il più bravo. Dunque m’intriga poco. M’è rimasta impressa una frase di Angelo Moratti, quand’era presidente dell’Inter e la sua squadra perse una partita facendosi tre autoreti. Disse: tu puoi fare il meglio, ma la sfortuna ti può infliggere il peggio”.
-Sfortuna, cioè il caso. Un tiro di dadi…
“Altolà, i dadi sono una cosa seria. Non ti permettere di liquidarli così”.
-Ne riparleremo?
“Li tiriamo un’altra volta”
-Per questo svolazzo pedatorio ci basta il celebre latinismo: area iacta est…
“È il rigor mortis di questo pezzo”.
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