Due uomini si avviavano ad andare in chiesa: uno eterosessuale, l’altro omosessuale. Dentro il tempio il primo, restando in piedi, cominciò a pregare e, dentro di sé, pensava: Ti ringrazio Dio che non sono come quello là; io faccio beneficenza, mando i figli nelle scuole religiose, frequento regolarmente le messe e se ho pensieri peccaminosi nel desiderare una donna, respingo il tentatore. Il secondo, battendosi il petto, chiedeva pietà a Dio e lo ringraziava perché l’ascoltava e lo perdonava.
Anche oggi, nella nostra evoluta e inquinata società, sopravanzano farisei e pubblicani, quest’ultimi vivono esperienze che non rientrano “nella normalità” e che patiscono i giudizi e i non giudizi di tanti “regolari”.
Filippo (non è un nome fittizio) è un mio carissimo amico romano. Lavora in un importante ente petrolifero ricoprendo un incarico di prestigio. Ha una sorella sposata con due bambini, un fratello e la madre. Si dichiara cattolico praticante, va a messa e fa parte di un gruppo cattolico organizzato da un sacerdote. È gay, ha un compagno da molti anni, medico con il quale condivide un soleggiato appartamento di tre stanze, arredato con gusto. Tutto è lindo, specialmente la cucina. Filippo sa cucinare egregiamente. È un uomo affascinante di trentotto anni, loquace, una buona cultura, con molte curiosità letterarie.
Lo conosco da quasi vent’anni. Mi fu presentato da amici. Subito manifestò il suo essere omosessuale, con un malcelato orgoglio (lo distingue dal pride festaiolo). Abbiamo raggiunto una reciproca confidenza che ci permette di entrare nei diversi argomenti senza pregiudizi e sospetti.
Gli chiesi dopo alcuni incontri a cena di amici come potesse conciliare il suo essere omosessuale con la fede. Notai che si aspettava la domanda, quasi volesse dimostrarmi che non c’era nulla di anomalo fra la sua condizione e la fede.
“Ho fatto fatica, all’inizio, a farmi accettare, a evitare giudizi sbrigativi. Vengo da una famiglia cattolica, mio padre si occupava di assistenza ai disagiati. In casa c’erano regole severe, ma tanto amore da parte dei miei genitori. Mi accorgevo che giocare con le mie coetanee non era difficile: non avevo pruriti come tutti gli altri compagni. Uscivo con loro, andavamo al cinema, a prendere la pizza. Gioiosamente. Ci fu un’occasione, verso i diciotto anni, nella quale trovandomi casualmente con un compagno del liceo, avvertii un’emozione intensa quando mi strinse la mano per salutarmi”
“Quando mi accorsi della mia ‘diversità’ non tardai a parlarne in casa e nonostante i timori trovai una profonda comprensione nei miei. Mi dissero solo: “Sii fedele al Signore”. Certo adesso non sento più addosso il peso di una condanna che veniva e ancora viene dai perbenisti, dai sepolcri imbiancati, da gente che ci vede solo come dei “viziati, “anormali”. Io mi sento normale nella mia cosiddetta anormalità perché vivo un rapporto d’amore con il mio compagno, nella fedeltà e nel rispetto.
“Vado a messa, prego, leggo il Vecchio e il Nuovo Testamento, il Vangelo e cerco di condurre un’esistenza regolare. Seguo un corso di teologia, mi interessa molto. Non giudico. Faccio ogni sforzo per non giudicare anche per non farmi giudicare”.
Una volta ho partecipato all’incontro che ogni quindici giorni hanno con un sacerdote. Si è parlato del Vangelo, di Cristo e dell’amore per il prossimo. All’uscita mi sono sentito più rinfrancato nella fede perché quelli li ho sentiti tutti miei fratelli e il passo di Luca mi è sembrato indicativo di un messaggio che ci invita a essere “liberi in Cristo”.
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