Le elezioni amministrative di un secolo fa furono sicuramente più semplici di quelle dei nostri tempi. Non c’erano ancora le oscure manovre delle segreterie di partito, che prima ancora di iniziare la competizione elettorale già prefigurano distribuzioni di assessorati o di presidenze nelle società partecipate dalla pubblica amministrazione. Non c’era ancora tutto questo, perché di partiti ce n’erano ben pochi (e forse il personale politico coltivava meno i propri interessi). Anzi, quando si votò a Varese nell’autunno del 1920, i partiti, nel vero senso della parola, erano soltanto due.
Ma procediamo con ordine…
A Varese il giorno delle elezioni fu fissato al 10 ottobre, di domenica. Si votò per rinnovare il Consiglio provinciale e quello comunale. Le elezioni amministrative interessarono tutto il Paese, in un momento in cui la crisi economica e sociale ereditata dalla Grande guerra trovava sfogo in sempre più frequenti e violente tensioni politiche.
Per il rinnovo del Consiglio comunale della città concorsero tre liste: quella del Partito socialista, quella del Partito popolare e quella dei liberali-democratici. La «Cronaca Prealpina» si schierò apertamente a sostegno di questi ultimi, tra i quali figurava il fondatore e direttore del giornale, Giovanni Bagaini, accanto ad altri varesini illustri, come l’ingegnere Edoardo Flumiani o Emilio Mozzoni, per citarne solo un paio.
Il Partito socialista si presentò agli elettori con un programma al fulmicotone. La conquista delle istituzioni, ad ogni livello, era funzionale alla «penetrazione rivoluzionaria fra le masse». In particolare si sosteneva che i Comuni avrebbero consentito di avvalersi «di una forza e di un potere da contrapporsi alla forza ed al potere dello Stato centrale», subordinando «ogni attività amministrativa e politica alle esigenze generali della lotta rivoluzionaria ed antistatale svolta al di fuori degli Istituti comunali, dalle organizzazioni politiche del proletariato organizzato».
Nel presentare i programmi elettorali, il quotidiano varesino commentò così:
In altri termini il partito socialista muove alla conquista dei Comuni con due obbiettivi precisi: Fare dei comuni un’arma rivoluzionaria antistatale per affrettare la instaurazione del regime comunista in Italia. Dare ai comuni stessi un’amministrazione puramente di classe preparandola alla costituzione dei Soviet.La preoccupazione della borghesia varesina era giustificata, oltre che dal clima da guerra civile che si respirava in gran parte della penisola, anche da quanto era avvenuto in città il mese precedente. Ad ottobre, gli operai avevano occupato gli stabilimenti della Società Anonima Fratelli Macchi e della Anonima Nieuport e sui cancelli d’ingresso avevano issato bandiere rosse e cartelli inneggianti a Lenin. A provocare l’occupazione era stata la paura di una serrata. Alla fine di agosto, infatti, la Confindustria aveva indicato questa strada per rispondere all’iniziativa della Fiom, che aveva proclamato scioperi e invitato gli operai a rallentare la produzione. La Fiom, infatti, dal mese di giugno reclamava interventi per migliorare le condizioni di vita dei metallurgici e soprattutto un aumento salariale per far fronte all’impennata che aveva avuto il costo della vita nel primo dopoguerra. Alla rottura delle trattative sindacali e alla minaccia di serrate da parte degli industriali i lavoratori risposero appunto con l’occupazione delle fabbriche. A Varese l’occupazione durò un paio di giorni.
Nonostante tutto, il 10 ottobre le votazioni si svolsero regolarmente: 8.097 erano gli aventi diritto al voto; 4.543 furono i votanti. Alla fine il Partito socialista riportò una vittoria schiacciante: con 2.538 voti (ne aveva avuti 2.460 alle elezioni politiche del 1919), ottenne 24 consiglieri; gli altri 6 consiglieri (tra i quali vi fu Giovanni Bagaini) andarono ai liberali-democratici, che riportarono 1.473 voti (nel 1919 ne avevano ottenuti 1.172); nessun consigliere fu eletto dalla lista del Partito popolare, cui andarono 884 voti (849 ne aveva avuti l’anno precedente).
Quando, la sera dell’11 ottobre, furono annunciati ufficialmente i risultati, una bandiera rossa fu issata sul balcone del Palazzo di Città e un corteo spontaneo attraversò le vie del centro cittadino sotto la pioggia. A conclusione della manifestazione, dallo stesso balcone del municipio si affacciarono, per salutare la folla, che si era assiepata in via Sacco, i consiglieri provinciali Spagnoli e Battaini, gli eletti al Consiglio comunale Andrea Beltramini e Riccardo Momigliano e il segretario della Camera del Lavoro di Luino, Montanari.
Il periodico cattolico «Luce!», schieratosi apertamente con il Partito popolare, prendendo atto della sconfitta, commentò in questo modo la vittoria dei socialisti e l’esibizione della bandiera rossa dal balcone del Comune:
È inutile che noi oggi ci palleggiamo la responsabilità e la colpa del trionfo dei rossi. Certo, onta peggiore non poteva toccare alla patriottica e gentile Varese. La bandiera rossa, simbolo di sovvertimento d’ogni ordine civile, segnacolo non di restaurazione e di ricostruzione, ma di distruzione e di asservimento delle coscienze alla peggiore delle autocrazie e delle dittature, la bandiera rossa ha sostituito la bandiera nazionale e fu piantata là sul balcone municipale.La prima seduta del nuovo Consiglio comunale ebbe luogo il 26 ottobre. I socialisti fecero il loro ingresso in aula sfoggiando un garofano rosso all’occhiello delle giacche. Il pubblico riempiva ogni spazio e strabordava all’esterno.
In quella occasione, i consiglieri furono chiamati ad esprimere la nuova Giunta: Andrea Beltramini fu eletto sindaco, affiancato da Carlo Bulgheroni, come assessore anziano; Luigi Cova, Ernesto Ghezzi e Riccardo Momigliano, assessori; Flavio Albizzati e Adolfo Mentasti, assessori supplenti.
Subito dopo l’elezione della Giunta, il socialista Cova prese la parola «per commemorare le vittime politiche e per mandare un saluto reverente a nome del Consiglio a coloro che sono colpiti dalla reazione».
Beltramini succedeva a Vincenzo Castelletti, che si era insediato il 29 luglio del 1914. Il nuovo sindaco era nato a Como il 13 dicembre 1877. Avvocato, fu anche Presidente della deputazione provinciale e deputato nella XXVI legislatura. Per le sue posizioni politiche e per la sua attività antifascista fu espulso dall’ordine professionale e condannato al confino, che scontò a Ponza, Ventotene e Vietri. Dopo l’8 settembre del 1943, riprese la lotta politica, contribuendo alla nascita delle formazioni partigiane nella zona di Como. Fu infine costretto a riparare in Svizzera, dove morì il 1° aprile del 1944. I suoi tre figli, Antonio, Sandro e Lionello, militarono nelle Brigate «Matteotti» e dopo la guerra furono tutti impegnati politicamente nelle forze progressiste e di sinistra.
Coerentemente a quanto annunciato dal nuovo sindaco nel corso della prima seduta, il Consiglio comunale approvò, la sera del 28 dicembre successivo, l’adesione del Comune di Varese alla Lega dei Comuni socialisti italiani, che avrebbe dovuto dare, secondo quanto dichiarò Bergamini, «l’indicazione delle linee generali che tutti i Comuni socialisti devono seguire».
Segno del nuovo corso intrapreso dall’amministrazione varesina e del clima politico di quel tormentato periodo, l’episodio minore registrato dalle cronache e avvenuto agli inizi di novembre, appena qualche giorno dopo le celebrazioni per la vittoria della Grande guerra. La mattina del 7 novembre, una domenica, sul balcone del Palazzo di Città fu esposta e sventolò per tutta la giornata una bandiera rossa: si volle celebrare in questo modo l’anniversario della rivoluzione russa.
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