Nello scorso articolo abbiamo esaminato i due obiettivi che una società liberale, democratica ed equitaria cerca di mediare e, tendenzialmente, raggiungere: la singolarità e l’universalità, il massimo di individuazione con un massimo di uguaglianza nei diritti. Abbiamo respinto concetti filosoficamente pericolosi, ambigui e insensati, quali nazione, etnia, cultura e identità. Si è convenuto che il solo impiego legittimo del termine identità riguardi la lingua, nei limiti in cui. nel mondo globale del XXI secolo, si possano immaginare vite future che si svolgono entro una sola lingua madre.
Il territorio italiano ospita un po’ più di cinque milioni di cittadini stranieri. Varese ne ospita poco più di diecimila, la provincia 77.000. Vi sono circa 150 gruppi nazionali, spesso con numeri irrilevanti. Sette ospiti su dieci hanno meno di 45 anni. Quasi tutti sono bilingui. Il possesso dell’italiano va da un’appropriata conoscenza scritta, letta e parlata ad un uso debole, ma fruibile quanto basta, della sola lingua parlata. Uno su quattro è nato qui. Ma una legge punitiva considera la migrazione un peccato originale che si trasmette per discendenza. Solo dopo i 18 anni il peccato sarà emendabile; e dopo qualche altro anno nei gironi burocratici del purgatorio il nativo di serie B o C sarà ammesso alla cittadinanza. Le lingue madri maggiori sono l’albanese, lo spagnolo latino-americano, l’ucraino (che è una variante del russo), il rumeno e l’arabo. L’italiano è usato come lingua franca nel lavoro e come prima lingua nella crescita dei figli. I livelli di occupazione sono simili a quelli degli italo-varesini; e ciò – si suppone – riguarda anche la piaga dell’occupazione irregolare e precaria o gli imbrogli legali delle partite IVA e delle cooperative.
I gruppi linguistici più numerosi sono in grado di far valere meglio i propri diritti nei rapporti di lavoro, ma la loro ghettizzazione attiva, dovuta all’autosufficienza nelle relazioni parentali, amicali e affettive, alla tendenza all’endogamia e ai vincoli delle catene migratorie e della connazionalità, rende meno piena, o più povera, la loro integrazione. Questi ostacoli sono più forti nella fascia tra i 20 e i 45 anni. In entrata, le opportunità costituite dalle relazioni scolastiche si attenuano per chi non passa agli studi universitari o resta fuori dal mercato del lavoro regolare. Oltre la soglia è difficile stringere nuove relazioni.
Altri gruppi, che si sentono più identificabili per i loro tratti somatici, tendono a rifuggire la visibilità, come se l’esclusione volontaria fosse una barriera di protezione. A Varese e provincia vivono pakistani, bengalesi, cingalesi e indiani. Si svegliano, escono, lavorano, rientrano, cenano, dormono. Per solito, quando i membri di questi gruppi si distribuiscono su una composizione per sessi squilibrata (chi a favore dei maschi, chi delle femmine), le abitazioni vengono condivise lungo le linee delle catene migratorie: compaesani, lontani parenti, reti amicali in entrata o in uscita. La qualità molto bassa della vita di queste persone non fa rientrare l’integrazione nei loro progetti futuri. Coltivano la nostalgia del territorio di origine e sognano di tornarvi al termine del lavoro o non appena confortati da un risparmio sufficiente a sostenere i loro progetti in patria.
All’interno di altri contesti geografici, chi proviene dal Marocco ha un equilibrio ottimale nel bilanciamento tra i sessi e la rete migratoria è costituita da nuclei familiari con figli italo-varesini per nascita. I tunisini sono accettabilmente equilibrati. Altri gruppi di origine araba vedono invece una netta maggioranza di maschi che vivono a lungo isolati, in avanscoperta, in locali condivisi, in attesa di ricongiungere a sé la famiglia non appena le condizioni economiche consentiranno un appartamento in affitto e il mantenimento (definitivo o temporaneo) della moglie e di eventuali figli.
Pertanto, alcuni gruppi possono avere un’elevata assimilazione che li equipara agli italo-varesini per opportunità e uso della lingua, ma che in età adulta seguita a recintarli nella nazionalità d’origine. Altri invece non sono in grado, per il loro isolamento, di procedere di loro iniziativa verso un’integrazione che faccia perno sul radicamento territoriale, a partire dalla lingua.
In queste condizioni, cosa possono fare un ente locale, un’associazione di volontariato o un singolo cittadino, i quali vogliano facilitare, per un calcolo di vantaggi comparati, quell’integrazione per tutti che consente a ciascun migrante o nativo varesino di attivare positivamente il binomio singolarità-uguaglianza per dissolvere le barriere invisibili tra le cosiddette comunità, culture o identità? Un ente locale promuove servizi sociali, educativi e culturali, le associazioni eventi e incontri, il cittadino italo-varesino opportunità di amicizie, relazioni e frequentazioni, anzitutto per l’ospite e i suoi familiari, a cominciare dai figli, che suscitino in loro il bisogno e il desiderio di integrazione attiva.
L’ente locale al centro di un’area territoriale può impegnarsi a potenziare l’intensità e la qualità dei servizi finalizzati che mettono in relazione provenienze diverse. Penso a presidi sanitari orientati agli stranieri; a supporti nei vari gradi di scolarità (dall’infanzia all’università, dalla formazione professionale alla formazione ricorrente), specie con politiche di sostegno al diritto allo studio e alle famiglie; alla disponibilità di un terminale di una rete bibliotecaria provinciale o regionale in lingua originale; a luoghi di socializzazione e, perché no?, di consumo; a spettacoli musicali e cinematografici; alla possibilità di celebrare riti di accoglienza in vita e di congedo dalla vita e altri eventuali riti di passaggio o di incontro religioso.
Il volontariato può promuovere catene di solidarietà e di mutuo aiuto; può suscitare attività che potenzino la conoscenza della lingua italiana come seconda lingua o come lingua madre non adeguatamente parlata in famiglia e, in caso, della lingua dei genitori come seconda o terza lingua; e può generare integrazione attiva attraverso impegni oblativi a favore di tutti i residenti nel territorio o dei più bisognosi.
I singoli xeno-varesini possono contribuire a comporre situazioni di conflitto, a isolare quei comportamenti che violano la legalità e a fare da pontieri tra i vari gruppi e con gli italiani. Dal canto loro, ciascun italo-varesino può farsi facilitatore attivi di integrazione a livello molecolare, nelle relazioni individuali. Basta poco a infondere un senso di ospitalità. Più questo sentire sarà vissuto come naturale, e più beneficio ne verrà per tutti in termini di serenità, di relazioni e di messa al riparo dei cittadini (quale ne sia il passaporto) da possibili conflitti di tipo razziale, nazionale o religioso.
Tutti questi attori possono concorrere a creare un monitoraggio di prossimità a scopo di aiuto nelle situazioni di disagio sociale o psichico, non risolvendole demagogicamente in termini di ordine pubblico e di sicurezza, per contrastare l’elusione scolastica, le difficoltà nei percorsi di apprendimento e la deprivazione culturale, nonché, infine, nel fare sì che i luoghi della socializzazione siano vissuti come accessibili a tutti, e che nessuna area della città sia percepite come ostile, respingente o selettiva. La vera sicurezza non nasce dal contrasto a schiamazzi, bivacchi e questuanti, come pretendono individui inclini a una visione autoritaria e infelicitante del mondo, ma da un impegno convergente di molti attori, anche distanti tra loro, per promuovere ogni uno in una concreta parità di diritti, di servizi e di opportunità.
You must be logged in to post a comment Login