-Caro Mauro, quella volta che…
“Caro Massimo, quella volta che iniziai a scrivere lettere a Paolo Granzotto, firma storica del Giornale. Fine anni Novanta, andando a spanne di memoria”.
-Lettere per dire che?
“Per discutere d’argomenti vari, cultura soprattutto”.
-Tu scrivevi e lui rispondeva?
“Rispondeva sempre. L’angolo di Granzotto, così si chiamava la sua rubrica, aveva molto séguito tra i lettori. Ne vennero fuori dibattiti curiosi. Scambi d’opinione interessanti, per esempio sulle questioni americane, d’alcune delle quali era esperto. E infine s’accese anche un’idea”.
-Che idea?
“Raccogliere quella corrispondenza epistolare, trasformandola in un libro. Ne parlammo, ma non si fece in tempo a dar corso al progetto. Paolo se ne andò, era il maggio 2016”.
-Raccontiamo di Granzotto. Dei Granzotto. Journalism family…
“Gianni, il padre, fu inviato e corrispondente del Tempo e dell’Europeo da Parigi, poi della Rai da New York. A metà anni Cinquanta appartenne al ‘team’ che diede vita ai servizi giornalistici della televisione di Stato, di cui successivamente diventò amministratore delegato. Fra il tanto che fece, spicca l’invenzione delle Tribune elettorali. Scrisse infine libri di storia, soprattutto biografie, vincendo il premio Campiello con quella dedicata a Carlo Magno”.
-Non sazio, s’adoperò alla fondazione del Giornale…
“Lui e Guido Piovene affiancarono Montanelli nel metter le radici della nuova pubblicazione. Era il ’74. Ma l’idea aveva germogliato qualche mese prima, su un prato di Cortina d’Ampezzo, durante un picnic nel giorno di Ferragosto, presente anche Dino Buzzati. S’adoperò Paolo a raccontare l’aneddoto, qualche tempo dopo”.
-Paolo che entrò subito al Giornale…
“E ne rappresentò una colonna. Inviato speciale, editorialista, vicedirettore, curatore delle pagine culturali, titolare di rubriche di colloquio coi lettori. Naturalmente scrittore finissimo, colto, divertente. Abilmente diabolico nel pungere. Se polemizzavi con lui, t’inforconava”.
-Aveva uno speciale rapporto con Montanelli…
“Specialissimo. Tanto che ne scrisse una biografia, uscita nel 2004. Capitava perfino che trascorressero le vacanze insieme. Rivelò una volta che Indro era solito leggergli i suoi pezzi, agitando le braccia a mo’ di recitazione. Desiderava un parere sul suono d’insieme delle frasi: se era negativo, rimodellava il testo”.
-Come vi siete conosciuti, tu e Paolo?
“Al Giornale, dove mi aveva chiamato Mario Cervi, che allora lo dirigeva. Familiarizzammo al punto da condividere insieme alcune sortite pubbliche, per esempio nell’occasione in cui partecipammo a un convegno a Cagliari sul tema del turismo”.
-Perché citi questo convegno?
“Perché accadde un episodio singolare. Paolo portava sempre con sé una valigetta, anzi una valigia, di medicine. Nella circostanza me l’affidò e io da sbadato gliela persi. Passarono ore d’angoscia prima del ritrovamento: se non l’avesse recuperata, sarebbe ripartito immediatamente per Milano. Le medicine, tante medicine, erano la sua compagnia quotidiana, oltre che i mezzi per curarsi”.
-Quale specialità prediligeva del mestiere di giornalista?
“Il ruolo d’inviato. Me ne parlò a lungo. Era una vita avventurosa, piacevole e dura insieme. Comunque appagante. Passata in compagnia di spericolati come lui. Perché gl’inviati sono gente temeraria, pur se attenta all’organizzazione. Si muovono in branco: scelgono una meta, ci vanno. E là arrivati, liberi tutti: bravo chi sa pescare una notizia che l’altro non ha”.
-Solidarietà e concorrenza…
“Umanità e spirito professionale. Che possono andare d’accordo. Paolo ne diede testimonianza quando venne a Luino, alla fine d’ottobre del 2014, per celebrare i quarant’anni del Giornale assieme a Cervi, Bertarelli, Mezzetti, Caruso. Idem fece in un mio Salotto varesino allo Zamberletti, chiusosi con una serata di qualche imbarazzo”.
-Quale imbarazzo?
“Non scriverlo. Ma successe questo. Anziché cenare, come d’abitudine dopo tali incontri culturali, al ristorante Bologna per proporre all’ospite le infinite leccornie del sito, decisi d’accomodarlo al desco di casa. Sfortuna volle che mia moglie, cuoca eccezionale, non azzeccasse la cottura d’una carne promettentissima. Sicché…”
-Sicché?
“Sicché Granzotto si trovò costretto a mandibolare un paio di fettine lontane dal concetto di tenero. Un sacrificio che sopportò stoicamente, crescendo nella mia considerazione”.
- A proposito di considerazione: lungo sodalizio con Montanelli, ma rifiuto a seguirlo alla Voce, ch’egli creò dopo l’addio al Giornale…
“Decisione sofferta, e Granzotto ne scrisse in numerose circostanze. Nel Montanelli di cui tesseva le lodi la sinistra, non riconosceva più il Montanelli d’antan, fondatore d’un foglio di destra. La destra liberale, borghese, storica. Granzotto spiegò: ma come, abbiamo lottato una vita per dare cittadinanza politica alle nostre idee, e adesso che un governo ce le rappresenta lo critichiamo pregiudizialmente? La rottura con Indro fu inevitabile”.
-Ma consumatasi con stile…
“Impeccabile stile. Fu Montanelli a dire a Granzotto: io vado via dal Giornale, so che non verrai e in fondo ne sono contento. Rimani a presidiare la nostra fortezza”.
-La presidiò come si doveva?
“Al meglio. Fu il trait-d’union fra il direttore che lasciava e quello che veniva. Cioè Vittorio Feltri. Il loro sodalizio diede ottimi frutti: copie raddoppiate in quattro anni”.
-Un rimpianto finale?
“Che Granzotto non abbia scritto tutto quello che mi ha detto. Lui come molti del suo mondo. Un errore: non lasciando eredità nero su bianco, si privano gli altri di ciò che gli sarebbe più che utile. Prezioso”.
-E’ questo il motivo che ti spinge ogni giorno a un bouquet di tue opinioni?
“E’ questo”.
-La ricerca dell’immortalità?
“Pignoleria: è l’immortalità che cerca me”.
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