Italo Calvino in una lettera del 1960 affermò che l’unica cosa che avrebbe voluto insegnare era un modo di guardare, cioè di essere al mondo. La potente sintesi di Calvino ci affida uno strumento per apprezzare chi permette di essere discepoli dello sguardo e di provare gratitudine per i maestri che ci hanno insegnato a guardare, o meglio ad osservare. La riconoscenza non è, però, un sentimento facile. Anzi è difficile, molto difficile se, riconoscendo l’altro, siamo costretti ad ammettere i nostri limiti o bisogni profondi, talvolta i nostri errori. Verso l’altro è, insomma, più facile la via dell’elogio o della critica.
Tutto questo può valere in questi giorni se lo applichiamo alle celebrazioni per i 120 anni della nascita di Eduardo De Filippo. Lo ricorda lui stesso nella poesia A vita, io song’o nato il millenoviciento, il 24 maggio 1920.
Per carità i festeggiamenti sono quasi sempre purificati dalle critiche ma gli elogi, troppo spesso, sono privi della feconda semplicità di riconoscere umilmente il valore di quanto ci è stato dato. Teatro significa guardare, essere spettatori e Eduardo ha dimostrato proprio questo. Non l’ha insegnato ma l’ha fatto vivere. E spesso ci ha fatto sentire come i personaggi di Napoli milionaria che di fronte alla malattia della piccola Bianca siamo costretti ad un esame di coscienza. Purtoppo noi spesso, come studenti frettolosi, ci accontentiamo delle frasi da bigino, ricordando che gli esami non finiscono mai oppure in questo periodo di fiducia disperata ripetendoci che Ha da passa’a Nuttata. La celebre battuta conclusiva di Gennaro in Napoli milionaria ci ricorda quanto dovrebbe essere scontato, cioè che nella vita non c’è solo il bianco e il nero, ma convivono, come la rassegnazione e la speranza di un possibile riscatto. L’arte della vita, l’arte del teatro di De Filippo rappresenta proprio questo straordinario miscuglio. Che cosa è – ad esempio- Napoli Milionaria!, scritta d’un fiato nel 1945, se non un meraviglioso pastiche: melodramma? Commedia? Dramma? Cronaca drammatica? È tutto questo, come tutto il teatro di De Filippo: ora farsa, ora comicità amara, ora tensione drammatica. Ma anche ironia liberatrice, smascheramento delle convenzioni, il particolare di un ambiente che diventa universale.
È la realtà quasi surreale di questi fantasmi o de le voci dentro. È la capacità di essere paradossale, grottesco e di trasformare – come è stato detto- il surreale in reale.
È insieme lo scavo interiore e la denuncia dei mali della società, la fatica del vivere, la disoccupazione, il dramma del lavoro minorile. È la Napoli degli umili e dei borghesi, del valore della famiglia nella disillusa certezza di Natale in casa Cupiello e la lucida rassegnazione della sua disgregazione. È il presente animato da ataviche paure e di coraggiosa forza, come quella di Filumena. Un continuo dialogo tra morte e vita, afferrato nel grido gioioso di Alberto Stigliano che in Mia Famiglia esprime il suo sentimento più autentico: Nun moro cchiu’. Un sentimento universale, ripetuto ma rinnovato e capace di rinnovare sempre il modo di guardare la vita. Sempre Calvino scrisse che L’arte di scrivere storie sta nel tirare fuori da quel nulla che si è capito della vita, tutto il resto. Eduardo ha saputo tirare fuori anche dallo scontato un mondo. E lo ha fatto con una lingua semplice ma di potente effetto, un abbraccio quasi fisico tra l’immediatezza intraducibile della cadenza dialettale e l ‘essenzialità di un italiano che può essere tradotto in visioni di vita che superano i confini. Non sarà certo un caso che sia stato apprezzato in molti paesi e tradotto in inglese. La vera forza, non politica ma culturale, del locale che ha il respiro globale. Senza dimenticare una delle sue frasi più belle e drammaticamente attuali “Lo sforzo disperato che l’uomo compie nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”. E mai come in questi mesi ne siamo stati privati.
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