«È nefando, è ingiurioso per la tradizione, e quindi per la stirpe, riporre in soffitta violini, mandolini e chitarre per dar fiato ai saxofoni e percuotere timpani secondo le barbare melodie che vivono soltanto per le effemeridi della moda! È stupido, è ridicolo, è antifascista andare in sollucchero per le danze ombelicali di una mulatta o accorrere come babbei a ogni americanata che ci venga d’oltre oceano!»
Il bersaglio polemico dell’articolo, apparso nel 1928 sul «Popolo d’Italia» e da cui è tratto il paragrafo che avete appena letto, era una moda musicale che imperversava in Italia ormai da alcuni anni, il jazz. L’autore era Carlo Ravasio, il quale, nel 1943, sarebbe transitato per breve tempo dal carcere dei Miogni.
Un anno prima, sulla «Stampa», il fascistissimo scrittore e giornalista Marco Ramperti aveva cercato di spiegare questa nuova tendenza, attraverso un raccontino alla maniera di Esopo, in cui gli animali più diversi offrivano la loro interpretazione del jazz. Era, questa, una musica che piaceva a orsi, serpenti, scimmie (in particolar modo), ma dispiaceva sommamente all’usignolo: «Lo jazz, credetemi, è un’offesa a tutti i sacri principi musicali». Anche la giraffa, nella favoletta di Ramperti, aveva di che lamentarsi: «Da quando m’hanno piantato intorno, proprio al livello del collo, tante antenne radiofoniche, sono costretta a subirne le vibrazioni e i sussulti. E così mi sono presa l’emicrania».
La radio, infatti, era il veicolo privilegiato per la diffusione di quel nuovo genere musicale, che pare fosse sbarcato in Italia con l’arrivo degli americani durante la Grande guerra. In Italia, la radio iniziò la sua fortuna proprio con il fascismo (l’Unione radiofonica italiana, nata nel 1924, fu poi trasformata in Ente italiano audizioni radiofoniche nel 1928). E attraverso la radio più facilmente circolò il jazz.
Ora, le preoccupazioni che manifestavano i sostenitori di un fascismo “strapaesano”, propugnatore di una visione rurale e tradizionale del nostro Paese, erano le stesse che, da tutt’altra posizione e prospettiva, furono messe per iscritto in una lettera che, sempre nel 1928, Antonio Gramsci indirizzò alla cognata Tatiana. Certo, Gramsci all’epoca era già detenuto e non ascoltava la radio, ma guardava allarmato alla corruzione dei costumi popolari e alla contaminazione proveniente da una cultura considerata “estranea”, oltre che straniera: «Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è possibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzanti, che l’avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato deglijazz-bands, rimanga senza risultati ideologici?»
Il giudizio di Gramsci, tuttavia, non poteva essere noto nel 1928: dall’8 novembre del 1926 era stato rinchiuso in carcere. Ma nel 1929, un artista noto ed affermato come Anton Giulio Bragaglia pensò bene di dedicare un intero libro al Jazz Band. Non di grande pregio, in verità. La musica jazz è qui bollata come primitiva, espressione di una razza negra e della civiltà americana, con cui la cultura europea ed italiana non avrebbe dovuto avere nulla a che fare: «Le frenesie delle epilettiche torsioni di Charleston sanno di ginnastica sessuale e di meccanizzazione della vita. La odierna civiltà meccanica si riflette nella ridda infernale delle mosse di automi e di invasati, che compongono tale sorta di ballo». Eppure anni prima, i futuristi, con i quali Bragaglia si era accompagnato per le sue ricerche sul “fotodinamismo”, avevano guardato con favore alla nuova musica, espressione di quella modernità che andavano inseguendo in ogni campo. Se ne pentirono nel 1938, quando Marinetti e Bruno Corra firmarono il manifesto Contro il teatro morto Contro il romanzone analitico Contro il negrismo musicale: a quella data, quando ormai anche il futurismo era diventato roba da Accademia, dichiararono di voler combattere «l’asma funebre di ciò che si può chiamare il negrismo musicale ostinata melopea gemente rotta sincopaticamente da canzoni e danze a stantuffo da cui sperammo 25 anni fa ma ora non speriamo più dovesse fiorire l’originalità».
Il 1938 è un anno funesto per l’Italia. È l’anno in cui il fascismo avviò la persecuzione antiebraica. Il razzismo fascista si era già manifestato nei discorsi e negli atti pubblici in occasione della guerra d’Etiopia. In quella circostanza, era serpeggiato ad ogni livello il disprezzo verso la «razza negra», retaggio di una cultura differenzialista ottocentesca, sostenuta dalle pseudoscienze dell’epoca. Indro Montanelli, che in Etiopia aveva combattuto come ufficiale inquadrato nel XX Battaglione Eritreo, fu molto chiaro, a tal proposito, raccontando la sua esperienza sulla rivista «Civiltà fascista», nel 1936: «Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà». Inoltre, dal 1935 era partita la campagna per l’autarchia linguistica e qualcuno, arditamente, suggerì di non parlare più di «jazz», ma di «gezz», «giazz» o «giazzo». Le soluzioni proposte non ebbero molto successo.
Nell’ottobre del 1935, in Germania fu vietata la diffusione del jazz alla radio. In Italia, l’Eiar garantiva periodicamente che l’emissione di musica straniera era decisamente minoritaria rispetto a quella nazionale. Il problema, come si diceva, assunse un aspetto del tutto nuovo a partire dal 1938, quando la musica jazz fu accusata di essere un prodotto non solo «negroide», ma, e questo era ben peggio, «ebraico». Nel 1939, il «Popolo d’Italia», a proposito della musica moderna trasmessa dalla radio, ricordava che «il giudaismo mira contemporaneamente ad accumulare danaro e ad abbruttire l’umanità per poter far rifulgere le inesistenti qualità del “popolo ebreo”, e la musica moderna di jazz è una delle armi giudaiche più forti e più sicure». La fonte di ispirazione dell’estensore di questo articolo era il signor Henry Ford, di cui proprio quell’anno la casa editrice Sonzogno proponeva la versione italiana del volume intitolato L’Ebreo internazionale.
La preoccupazione che il jazz fosse la manifestazione più pericolosa della penetrazione virale della cultura “negra” ed ebrea si ritrova insistentemente riproposta dai lettori della «Difesa della razza», la rivista nata il 5 agosto 1938 quale strumento privilegiato di divulgazione del razzismo fascista. Tra le tante (e sgradevoli) testimonianze che potremmo citare a tal proposito, ci limitiamo a segnalare quanto denunciò al giornale una studentessa universitaria di Milano: «per opera di autori italiani, o che almeno si proclamano tali, la musica ebraico-negra cacciata dalla porta è rientrata dalla finestra». Perché in realtà il jazz si era, a quella data, ben radicato nelle abitudini e nei gusti musicali, generando esperienze di grande qualità (a tutti è noto il nome di Kramer Gorni, conosciuto come Gorni Kramer, la cui celebre Crapa pelada fu interpretata come uno sberleffo alla più nota testa pelata nazionale). Non mancò di denunciare il pullulare di gruppi musicali devoti al nuovo genere il solito «Popolo d’Italia», che nell’aprile del 1938 lamentò il fatto che a Milano fosse ospitato un concerto «gez» organizzato dal locale Circolo Jazz Hot: era proprio necessario, si chiedeva il giornale fondato da Mussolini, che una prestigiosa Società ambrosiana «si prendesse la briga di propinare ai propri soci musiche di gez americano, di quel gez che vanta fra i suoi più brillanti esponenti l’ebreo Benny Goodman, che organizza concerti pro bolscevichi spagnoli?»
Insomma, jazz o gez, il fascismo avrebbe voluto bandire questa forma d’arte: minacciosa e degenerata. Ma la cultura, come si sa, non conosce confini né muri né frontiere. E benché fu di fatto vietata la musica americana con l’estendersi del conflitto mondiale, il genere era ormai diventato di moda per un’intera generazione. Tra ritmi sincopati, marcette fasciste e melodie romantiche, l’orecchio dell’ascoltatore poteva facilmente confondersi.
Nel romanzo illustrato La misteriosa fiamma della regina Loana, del 2004, Umberto Eco descriveva bene come ritmi e motivi della musica trasmessa e consumata negli anni Trenta creassero un curioso cortocircuito, svelando piccole e salutari crepe nel progetto educativo del fascismo:
«La radio ora cantava un inno marziale che evocava l’immagine di una sfilata di giovani Camicie Nere, ma subito dopo il panorama cambiava, e per la strada passava ora tale Pippo, poco dotato da madre natura e dal suo sarto personale, che sopra il gilè portava la camicia. […] Ma chi passava per le vie della città, i Balilla o Pippo? E la gente di chi rideva? Forse il regime avvertiva nella vicenda di Pippo una sottile allusione? Era forse la saggezza popolare che ci consolava con tiritere quasi infantili di quella retorica dell’eroismo che si doveva subire a ogni istante?»
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