Un sogno nella tarda mattinata di una settimana fa mi si è impresso nella memoria.
Sono a Milano. Per recarmi in piazza Missori passo come di consueto da piazza Sant’Alessandro: un percorso che potrei fare alla cieca. Scivolo distrattamente per vie note. Ma prima di arrivare di fronte alla grande chiesa barocca, nella vicina galleria degli Arcimboldi mi perdo. Cerco di ritrovare il normale orientamento, e mi ritrovo a passeggiare per meravigliose piazze lastricate, rettangolari, con grandi chiese sul lato lungo e circondate per il resto da eleganti palazzi. Le piazze si susseguono come cammei incastonati in una città intatta, rimasta com’era agli inizi del ‘700. Ammiro continue varianti di architetture rinascimentali e barocche. Tutto è invenzione onirica, ma la veridicità storica, le omogeneità e i singoli dettagli architettonici suscitano un effetto di realismo. Nelle loro facciate scenografiche, le basiliche mescolano gli stili locali che ho incontrano in Olanda, Austria, Germania, Danimarca, Polonia e nei paesi baltici.
Mi aggiro estasiato in questo paesaggio urbano senza segni di modernità e senza anima viva in giro, e già vorrei raggiungere piazza Missori. Sulle prime non trovo un’uscita: fatico ad abbandonare lo spettacolo ipnotico che il sogno edifica passo dopo passo. Infine, dopo altre piazze inanellate l’una all’altra, per una qualche via laterale rientro a Milano, ma più giù, nel giardinetto a fianco del Bertarelli verso Porta Romana. Non appena rassicurato, già vorrei rientrare nell’utopia da cui sono stato improvvisamente espulso. E però non ritrovo il varco per rientrare. Mi aggiro invano in quartieri che conosco a memoria. Desisto, e il sogno si chiude.
Dopo un momento intermedio tra sonno e veglia, apro gli occhi e controllo l’ora. Sono le 13. Il primo proposito è di riaddormentarmi e immergermi di nuovo nel sogno, senza più inquietudine. Dormicchio, ma la città non riappare. Ho fatto colazione alle sei e il corpo vuole la sua parte. Potrei impigrire crogiolandomi nel dormiveglia; mi faccio forza e mi alzo.
La traccia emotiva del sogno è così forte da accompagnarmi per quasi tutta la giornata. Spesso ci chiediamo cosa abbiamo sognato, di rado come abbiamo sognato, quale tono emotivo ha accompagnato lo sviluppo della scena onirica. Il testo del sogno, che svanisce se non si ricorre a tempestive annotazioni, è la fragile colonna su cui poggiano le emozioni che lo accompagnano. Spesso nei sogni coesistono emozioni ambivalenti che ricostruiamo come congruenti, o addirittura coerenti, rispetto alla normale incongruenza e frammentarietà delle sequenze oniriche. Le tracce emotive si imprimono nel ricordo molto più dei dettagli narrativi. Mentre i dettagli dileguano rapidamente, un impulso razionalizzatore rende coerenti attorno alle emozioni dei materiali incongrui. Il frutto di quel compattamento è la rimanenza del sogno.
Non saprei interpretare il sogno. Posso solo tracciare una mappa delle rimanenze emotive del cocktail. Un sogno si vive e ha dei vissuti. Sul finire del sogno, e poi tra sonno e veglia, interviene uno schema che rimette a posto le cose, ma lascia ancora tracciabili i vissuti.
La prima impronta emotiva del sogno è il distanziamento temporale. Non ci si vede quasi mai nei sogni. So di essere abbigliato come un italiano della mia età ma non ho con me tecnologie, non ho gli impulsi di un contemporaneo che vede frettolosamente e scatta foto senza osservare, in preda a una bulimia comunicativa, come se la memoria tecnologica servisse a documentare a terzi e non a ricordare per sé. Non incontro nessuno: sono il solo testimone di quell’incantevole mondo che si è consegnato immobile ai posteri. Registro la sorpresa e il piacere di visitare quella città senza nome.
Ma insieme al prolungato stupore registro un doppio senso di smarrimento, a cavallo tra il bisogno di rientrare nel mondo noto e l’entusiasmo per quel mondo che esula da ogni precedente esperienza,
Quello spazio e quel tempo mi affascinano e mi angustiano. Il sogno corre verso la fine quando, sentendomi imprigionato, ritrovo i frantumi discontinui della città nota. Nel passaggio a un vago dormiveglia, vorrei ritrovare quello spazio di utopia del tardo rinascimento europeo e tento invano di rianimare il sogno. All’ansia subentra la nostalgia. Un doppio legame unisce i due mondi: ambedue perduti, ambedue in altro modo ritrovati; mi racconto che avrei voluto restare in entrambi, per non perdere né la bellezza del primo né la consuetudine con il secondo.
In cerca del senso slittiamo verso percezioni già note e consuete, utili a ritrovare un equilibrio e a rinunciare all’euforia pur di mitigare l’impronta ansiogena che si scatena nel decorso del sogno. Due associazioni libere mi vengono spontanee mentre preparo il pranzo: l’appagamento del mio orgoglio circa le mie capacità di osservare, analizzare e memorizzare, il piacere di confermare a me stesso la mia qualità di visitatore non turistico (nessuno può più dirsi viaggiatore); e il ricordo contrapposto di uno smarrimento recente nel centro storico di Anversa, allorché, incapace di governare il timone del mio orientamento, ho finito per perdermi e rassegnarmi a gironzolare a caso, rinunciando ad alcune visite che mi ero proposto.
Quale che sia l’enigma impenetrabile di ogni sogno, tendiamo a riportare le nostre emozioni oniriche ad esperienze vissute. Così, rimescolando le carte, a distanza di qualche ora mi racconto che tutto il sogno ruota tra la desiderabilità di un’utopia che possa orientare il presente, anche se declinata al passato, e la necessità di abitare un presente che però, nella crisi epocale in corso, non ha più attrattive ed è anzi irrimediabilmente cacotopico. Alla forza evocativa del sogno si è sovrapposta alla fine una metafora artificiosa.
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