Un’interessante tendenza televisiva emersa in queste ultime settimane è la conduzione domestica del TG: sono all’ordine del giorno esperimenti su Sky, ma il tentativo è stato fatto anche a TG3 Mondo e in altri format.
In questi casi, le case dei mezzibusti – impossibilitati a uscire – diventano set improvvisati, fateci caso: una abat-jour sapientemente piazzata alla base di una libreria ikea può trasformare un tinello anonimo in un tempio del sapere, una persiana socchiusa può creare un taglio di luce evocativo, un muro vuoto e colorato può sembrare una studiata scenografia “minimal style”e ci si immagina l’azzimato conduttore o la fatale anchorwoman perfettamente (anche se artigianalmente) sistemati fino alla cinta ma (per citare il film di Vanzina del 1985) “sotto lo scrittoio… niente”, o magari solo pigiama di Topolino e ciabatte di peluche. Nell’ambito di queste situazioni hanno fatto il giro del web anche gustosi incidenti di percorso, come figli e amiche che attraversano discinti e distratti l’inquadratura durante una diretta.
Nel moltiplicarsi di talk show si sono svuotati gli studi televisivi, dove entrano col contagocce persino i tecnici. Gli ospiti ormai sono “automuniti”, come viene chiesto dalle pizzerie ai ragazzi che si offrono per fare consegne a domicilio. Vuoi partecipare? Ok, ma devi avere un computer con telecamera, connessione veloce e capacità tecnica di fronteggiare l’imprevisto dell’ultimo minuto. E mi raccomando lo sfondo: una libreria è come il blu, va sempre bene. Ecco dunque compunti baroni universitari, reucci della virologia, pensosi filosofi, alteri (e spesso alterati) economisti che si sono giocoforza creati nel giro di due settimane un’articolata competenza in campo di cablaggio, connettività e affini per proporsi, in modalità tutto compreso, via skype. Così facendo non escono di casa ma riescono a monopolizzare l’etere, riempiendo di sé e delle loro sapienze interi palinsesti: una sorta di “globalizzazione” dell’opinionismo televisivo, oggi qua e subito dopo… di là.
Intanto, con la fine del lockdown del 4 maggio, i motori della televisione generalista si sono riaccesi lentamente ma inesorabilmente e tornano a fare capolino produzioni nuove. Ma colpisce che i palinsesti siano ancora pieni di prodotti che recano da qualche parte la fatidica scritta “programma registrato prima del DPCM”, quello cioè che ci blindava in casa, distanziava e metteva la mascherina a tutti quanti. Una scritta che rende plasticamente visibile quanto il grosso della televisione sia prodotto con ampio anticipo e fa molto strano vedere quanti programmi, soprattutto quelli di cucina, che tanto andavano di moda, visti oggi suonino preistorici. Prendete ad esempio quelli trasmessi su La8 e La9, come “Quattro ristoranti” condotto da Alessandro Borghese, “Little Big Italy” con Francesco Panella e “Camionisti in trattoria” guidato (è proprio il caso di dirlo) da Misha Sukyas: appassionanti – per carità – ma è tutto uno scambio di piatti, posate, assaggini, dita leccate e scarpette nelle pietanze altrui.
Era il bello della degustazione, la gola fattasi spettacolo, la masticazione trasfigurata in genere televisivo, il peccato di gola elevato a gag ma oggi ci suona come qualcosa di perturbante, di profondamente sconveniente, di igienicamente molesto, difficile trovare oggi qualcosa di più lontano dalla nostra mentalità, dalle nostre fissazioni, dalle paranoie immunologiche che ci pervadono. È una situazione del tutto nuova per il telespettatore: perché se è facile rimpiangere i tempi del bianco e nero, del “come eravamo” che ci parla di epoche lontane, la tv di oggi riesce a farci vivere il paradosso di rimpiangere un tempo lontanissimo, pur essendo così vicino a noi da essere racchiuso in puntate ancora inedite.
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