La liberazione di Silvia Romano, con ciò che è seguito, mi ha condotto ad alcune riflessioni.
La prima riguarda la prevedibile valanga di idiozie che nella piazza di internet ha accompagnato l’evento. Se tante fesserie fossero state rigurgitate unicamente per la conversione religiosa di Silvia, o per il suo abbigliamento, o per qualunque altro dettaglio privato, non varrebbe la pena scrivere una riga in più. Tuttavia, sono sicuro che le polemiche si sarebbero scatenate anche se la giovane fosse arrivata a Fiumicino con un cattolicissimo paio di jeans e un crocefisso al collo. Infatti, un simile polverone era stato sollevato per altre due cooperanti rapite in Siria, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le quali né si erano convertite, né erano rientrate indossando l’ormai famoso jilbab.
A Silvia Romano è stato riservato, da alcuni, un trattamento da colpevole. Ho provato a immaginare cosa sarebbe successo se il rapimento di Silvia fosse avvenuto in Italia: una giovane volontaria, che presta servizio in un orfanotrofio, viene rapita da un gruppo di terroristi (forse odiatori di bambini, oppure le Nuove BR, o magari dei fondamentalisti religiosi). Viene nascosta per un anno, in costante pericolo di vita, finché il governo decide di pagare un riscatto ai rapitori. Silvia è libera. Chi avrebbe osato colpevolizzarla per aver fatto volontariato in un orfanotrofio? Chi avrebbe detto “se l’è cercata”? Pensandoci, mi è venuto da ridere. Per quale motivo, allora, le cose cambiano così tanto se anziché in Italia, la storia è ambientata in Somalia? Perché la Somalia è uno stato pericoloso; e soprattutto è uno stato africano (e se fai volontariato in Africa sei inevitabilmente un comunista, buonista, prenditeli a casa tua eccetera). Ma, a maggior ragione, non dovremmo lodare ancor di più chi si impegna in un luogo pericoloso, dove pochi vogliono andare, a rischio della pelle?
Qualcuno direbbe che la colpa di Silvia è stata la sua imprudenza. Federico Fubini, editorialista del Corriere della Sera, ha affidato a Twitter una breve riflessione sul tema: né Silvia, né soprattutto la ONG, erano minimamente preparate per affrontare la situazione (viene da chiedersi chi possa definirsi “pronto” ad affrontare un manipolo di criminali ben armati che ti piombano addosso per rapirti, rivenderti e tenerti prigioniera per un anno e mezzo). Questa vicenda, in effetti, potrebbe incoraggiare una riflessione sul mondo della cooperazione internazionale, sostiene Fubini. Personalmente, conosco poco queste dinamiche: di certo si può fare qualcosa, e deve essere fatto, per rendere un po’ più sicuro il servizio dei volontari all’estero. Se il legislatore non ha mai agito in questo senso, mentre a Chakama c’era bisogno di aiuto, la colpa non è di Silvia Romano.
Ma pur prendendo tutte le precauzioni del caso, finché ci saranno posti come Chakama, ci sarà anche il rischio di un rapimento. E ci si può girare intorno, ma il tema riemerge sempre: è giusto che uno stato scenda a patti con i terroristi? La risposta, se esiste, deve tenere conto, tra l’altro, della complessità del mondo, della natura e del contesto in cui opera questa o quella organizzazione terroristica. Pagare un riscatto incoraggia i terroristi a rapire ancora? E cosa faranno con quei soldi, forse costruiranno una bomba che ucciderà dieci, venti, cento civili? Un problema che non può essere sviscerato in poche righe.
Dovremmo rinunciare per questo ad aiutare dove c’è bisogno? Dovremmo dire ai volontari di non andare più in Somalia, o nei campi profughi siriani? Forse un giorno lo faremo, quando il nostro caro Occidente assumerà le proprie responsabilità nei confronti di quelle parti di mondo da lui stesso depredate; quando cesserà di inquinare e impoverire la terra del continente africano. Un giorno, potremo anche biasimare chi paghi un riscatto ai terroristi; ma non fino a quando gli stessi paesi che fieramente si attengono alla linea del “nessun patto con il nemico” si rendono poi segretamente campioni della black diplomacy; né fino a quando lo stesso biasimo e la stessa durezza non ricadranno su chi vende materiale bellico (Italia compresa) verso paesi che sistematicamente si rendono colpevoli, con quelle stesse armi, di violazioni dei diritti umani, per giri di affari che fruttano molto più denaro di qualsiasi riscatto mai pagato. Almeno fino a quel giorno, spero che il mio Paese non avrà problemi a pagare per la vita di una coraggiosa volontaria.
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