“Hanno liberato Silvia Romano”. La notizia è arrivata il giorno 9 maggio dal gruppo.
Un piccolo gruppo WhatsApp di amiche vivaci, mamme, nonne, sorelle, insegnanti, già professioniste impegnate in campi diversi, la cui reazione, messaggio dopo messaggio, è stata di gioia e sollievo. Non una sola parola contraria, ma l’unanime, commossa approvazione per la fine di un incubo e di una prigionia durata troppo a lungo per la giovane cooperante rapita in Kenya.
Una pennellata di azzurro felice nel grigio plumbeo di un periodo infausto.
Credo che molte donne, da mamme quali tutte noi siamo, abbiano temuto fortemente per Silvia: confesso di avere più volte pensato, nei precedenti mesi, nei lunghi silenzi di attesa sottolineati anche dai media, che ci fossero ben poche speranze. Ancor peggio, mi andavo figurando gli infiniti pericoli per una donna giovane e carina nelle mani di poco scrupolosi rapitori fin dal 18 novembre del 2018.
E allora, bentornata Silvia. Come fosse una nostra figlia, una figlia coraggiosa ha detto il cardinale Bassetti.
Indipendentemente da quanto fosse successo intorno a lei e dentro di lei, è stato giusto lottare per salvarla e accoglierla come una figlia tornata a casa.
Parole assurde, voci contro, levatesi a sproposito, hanno ben presto confermato i toni di una spietata, illiberale volgarità che circola nel sottobosco culturale di navigatori del nulla, di guardoni dei media e affabulatori del mondo della politica e della comunicazione, di gettonati (a peso d’oro) dei talk show televisivi addetti al vaniloquio da cui siamo in questo momento particolarmente oppressi. L’accusa poi di aver cambiato “divisa” religiosa l’ha resa colpevole, così le lingue hanno tentato di stracciarle almeno virtualmente le vesti, di frugare sotto gli abiti per vedere cos’era successo. La mascherina sul viso di Silvia per smarcare il coronavirus, più che l’abito incriminato, pare sottolineare in realtà il senso di una continuità nella prigionia, che non è solo per motivi sanitari.
Quanto alla condanna, di alcuni politici e di maitre à penser, dell’aver trattato e pagato per salvarle la vita, viene in mente la ieratica figura di un grande Papa, Paolo VI, inginocchiatosi idealmente davanti ai rapitori di un uomo politico, ma con la richiesta sottesa di un reale scambio con la sua persona. “Io scrivo a voi uomini delle Brigate Rosse (…) è in questo nome supremo di Cristo, che mi rivolgo a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente, e vi prego in ginocchio…”
Il rapito era Aldo Moro, statista e amico fin dagli anni giovanili di Papa Montini, sottratto alla libertà e alla famiglia il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse, nel corso di un sanguinario sequestro a Roma, in via Fani, costato la vita anche a cinque agenti della sua scorta.
Era anche quella una primavera di grigio plumbeo, aleggiava già da anni nel nostro Paese non il coronavirus ma l’ombra cupa del terrorismo che infesterà per anni menti e cuori. Vivevamo tutti sotto la cappa della paura: operai e sindacalisti, poliziotti e magistrati, professori e giornalisti con la G maiuscola-alcuni, uccisi o gambizzati, si chiamavano Casalegno, Montanelli, Tobagi.
Montini fu del resto altre volte impegnato, forse non lo ricordiamo più, nella richiesta di scambio della sua vita con quella di prigionieri innocenti. E molto sofferse di fronte al naufragio della sua accorata richiesta, siglato dalla tragica morte di Aldo Moro, al quale sopravviverà per pochi mesi.
L’immagine spietata del corpo inerme dello statista fatto ritrovare a 55 giorni dal rapimento, era il 9 maggio nel baule di una auto in Via Caetani, è rimasta per sempre in chi ha vissuto quel momento (9 maggio: il giorno della liberazione di Silvia).
Per il Paese, il suo mondo politico, che nelle trattative coi brigatisti aveva adottato la linea dura, e per l’intera umanità, fu un momento di sconfitta. Sofferta come tale anche dal Pontefice che pure aveva indicato come scelta, spingendosi fino all’offerta del personale sacrificio, la via e la vita.
La richiesta di salvezza per Moro era stata posta da Montini soprattutto “in virtù della sua dignità in comune fratello di umanità, e per causa (…) d’un vero progresso sociale, che non deve essere macchiato di sangue innocente, né tormentato da superfluo dolore”.
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