Sono sempre più convinto che la vicenda del coronavirus sia stata, almeno in Italia e soprattutto in Lombardia, più una questione di Sanità che sanitaria. Ovvero: in una tempesta perfetta si sono sommati vari fattori negativi, come l’incapacità dei politici di prevedere uno scenario di crisi (era saltata per aria la Cina, non un paesotto qualsiasi: era così difficile, posto anche il fatto che i cinesi hanno occupato il mondo, domandarsi come avremmo potuto arginare un contagio diffuso?), la mancanza di risorse e di strutture, la burocrazia inefficiente, l’onda lunga dei tagli costanti all’assistenza medica, probabilmente anche l’impostazione sbagliata data nella nostra Regione all’organizzazione degli ospedali e dei presidi sul territorio. Quale derivata logica, la Sanità zoppicante ha esaltato il problema sanitario.
Ma a mio avviso c’è un altro aspetto che è entrato nel calderone di una crisi epocale: l’aver dato sostanziale carta bianca ai virologi e, in senso lato, alla scienza. Ma la scienza spesso è intellettualmente arrogante, convinta di avere in mano le soluzioni e le leve giuste da muovere. Non è così e lo si era visto già in altre situazioni e su altre tematiche: la scienza dà il meglio di sé quando funge da consulente, ma non è così efficace quando assume una centralità totalitaria.
Il coronavirus ci ha proposto storie meravigliose e di sacrificio estremo (come non pensare a medici e infermieri che sono arrivati addirittura a sacrificare la loro vita?), però allo stesso tempo è stato anche un’occasione per battibecchi, ripicche, vanità, teatrini discutibili da parte di molti rappresentanti della cosiddetta scienza. Se mettete in fila dieci virologi e chiedete loro un parere su questo virus, probabilmente avrete almeno quattro pareri differenti, anche perché – ammissione postuma – di questo mostro si sapeva poco. Non entro nel merito delle scelte fatte e dei provvedimenti presi (mi limito a una sintesi: il rigore degli interventi non avrebbe dovuto essere disgiunto dal senso della realtà e mai avrebbe dovuto portare il Paese a una paralisi da cui sarà maledettamente difficile riprendersi), ma considero molti specialisti che hanno condizionato le decisioni alla stregua di certi ingegneri della Formula Uno che non sanno contestualizzare il loro lavoro, presi come sono da numeri, grafici, percentuali. Così poi si approda a casi paradossali, come quello del virologo inglese Neil Ferguson, sì quello che emanava regole draconiane e poi faceva venire l’amante a casa in barba al lockdown. Non è ovviamente per questo fatto che lo cito, bensì per la sua tendenza al catastrofismo e alle previsioni sbagliate.
Il collega Luigi Ippolito, corrispondente da Londra del Corriere della Sera, ha tracciato un impietoso bilancio dei “granchi” del cattedratico dell’Imperial College. Epidemia mucca pazza (2001): pronosticati da Ferguson 50 mila morti, decessi effettivi 177 (il premier Tony Blair fu comunque convinto ad abbattere 6 milioni di capi di bestiame, con un danno economico da 10 miliardi di sterline). Influenza aviaria (2005): l’esimio stimò 200 milioni di cadaveri, però alla fine i morti furono 282. Influenza suina (2009): 65 mila all’altro mondo, secondo Neil; ma creparono solo 457 persone. Ferguson in questi giorni ha pronosticato il peggio anche per la Svezia, che ha scelto di percorrere la strada dell’immunità di gregge, e per l’Italia della fase 2, che a suo avviso in tre settimane potrebbe arrivare a ben 23 mila morti. Visti gli “oroscopi” pregressi, possiamo dormire sonni tranquilli. Assieme agli svedesi, che continuano a passarsela bene.
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