Immaginatevi di salire su di un treno, magari un Freccia Rossa. Immaginate di sedervi su di una carrozza dove non c’è affollamento, anzi, visti i tempi, c’è distanziamento sociale, come si ama dire ora.
Immaginate però di non sapere la destinazione finale, né a quali fermate e stazioni andrete incontro. Ecco, immaginate che questo sia il nostro presente e il nostro futuro.
Quello che stiamo vivendo non è una prima volta dell’umanità. Le pestilenze nel corso della nostra storia si sono sempre viste. L’ultima ancora nella memoria recente è la “Spagnola” scoppiata cento anni fa.
Ma questa del corona virus è la prima in epoca post moderna e la prima che mette a nudo totalmente le debolezze e le fragilità della nostra società del rischio e, dopo dieci anni di crisi economica, forse, sarà quella che determinerà, più di ogni altra esperienza passata, il cambio totale dei nostri paradigmi interpretativi e provocherà una accelerazione al cambiamento che nessuno di noi aveva previsto o intravisto.
Fino a qualche mese fa il tema centrale del dibattito nei circoli economici e in quelli portatori di interessi era come si potesse affrontare l’affermarsi dell’intelligenza artificiale e dalla robotica nella nostre società.
Fino a qualche mese fa il confronto avveniva su come correggere la globalizzazione, come ridurre le diseguaglianze e come affrontare politicamente la sfida lanciata dai populisti e dai sovranisti. Ora tutto è superato dagli eventi.
Per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale nella maggioranza dei paesi di democrazia liberale è stata introdotta la limitazione delle libertà individuali.
Per la prima volta le persone hanno dovuto smettere di lavorare, hanno dovuto obbedire ad un ordine e cessare le proprie attività per un bene superiore e collettivo, la salute, e questo, tuttavia, con grave detrimento dell’economia e della possibilità di assicurarsi le risorse per vivere.
Nel momento in cui scrivo è iniziata la cosiddetta fase due, quella che dovrebbe significare un graduale ritorno alla normalità e un ripristino di condizioni conosciute.
Ma è realmente così? Io non credo. Quello che sta accadendo era inimmaginabile.
Assistiamo fin da ora ad una accelerazione dei processi informatici e di digitalizzazione nel mondo del lavoro che stanno, paradossalmente, facendo recuperare il deficit decennale del nostro Paese sia nel privato sia nel pubblico.
Si pensi a come muterà e evolverà il lavoro, le sue condizioni, la logistica, le relazioni sindacali, i rapporti contrattuali e le relazioni tra colleghi.
Lo smart working tanto richiamato oggi nasce da una esigenza di bisogno non manifesto prima ed anzi, per certi versi, osteggiato.
Smart working vuol dire avere reti moderne e capaci di trasmettere milioni di dati. Vuol dire avere software e hardware di ultima generazione e sempre aggiornati.
Vuol dire lavorare per obiettivi e non per le 8 ore. Vuol dire avere forme contrattuali che prevedano e impediscano lo sfruttamento del lavoratore, che codifichino questa forma nelle sue sfaccettature e anzi che lo favoriscano come prassi aziendale.
Vuol dire modificare i luoghi di lavoro. Non più ambienti spaziosi in zone della città distanti da dove si abita e si vive. Vuol dire più reti virtuali e meno edifici fisici. Vuol dire più riunioni di lavoro in chat. Vuol dire meno spostamenti, meno utilizzo di mezzi pubblici e privati (anche se, magari non ora) e questo porterà ad una nuova e diversa mobilità, ma anche ad una nuova e diversa urbanizzazione e quindi a città organizzate diversamente. Vuol dire anche che per effetto della necessità di distanza sociale, cosa che durerà comunque per diverso tempo, dovremo anche cambiare i tempi della città.
Cambiare i tempi della città vuol dire mutare gli orari di lavoro. Vuol dire differenziare gli orari della scuola di ogni ordine e grado. Ma vuol dire anche cambiare, riorganizzare anche il commercio sia quello della grande distribuzione sia quello al dettaglio. Vuol dire cambiare i servizi per le famiglie perchè le famiglie si organizzeranno rispetto al lavoro, rispetto alla scuola dei figli, rispetto al tempo libero.
Il mondo del lavoro è di fronte ad una nuova rivoluzione, forse la più profonda dai tempi dell’invenzione della macchina a vapore. Registrerà e subirà tali e tanti processi di cambiamento da non essere più riconoscibile.
Le relazioni umane, i rapporti tra lavoratori cambieranno. E le diseguaglianze e le fratture sociali prodotte aumenteranno. I lavori che avranno i maggiori cambiamenti per effetto dell’introduzione di innovazione produrranno la richiesta di personale più qualificato, più capace di autonomia e digitalmente preparato.
Sarà anche personale non sindacalizzato, con meno potere contrattuale rispetto al passato così da produrre cambiamenti anche sulle relazioni sindacali e sulle stesse organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori.
Ma pensiamo anche a quei settori che rimarranno fuori dai processi di innovazione perchè a bassa qualifica e a basso contenuto di conoscenza.
Conoscenza vuol dire scuola, formazione continua. Vuol dire istruzione. Vuol dire nuove proposte e percorsi educativi. Il mondo della scuola in questo periodo ha subito, come altri, una accelerazione incredibile. Sono messi in dubbio metodi, prassi e certezze consolidate per effetto dell’utilizzo di nuovi strumenti, strumenti che, tuttavia, non tutte le scuole hanno e non tutte le famiglie sono in grado di mettere a disposizione dei propri figli, di qui, di conseguenza, ancora una volta il tema della diseguaglianza che rischia di riprodursi in termini ben più gravi.
Insomma a me pare che i cambiamenti a cui andremo incontro sono assolutamente rivoluzionari rispetto al nostro vissuto quotidiano, a quel vissuto che abbiamo condiviso fino ad ora. Pensiamo, in ultimo, al tema dei rapporti tra noi, tra gli esseri umani. Al grado di diffidenza che questo momento particolare ha introdotto nei nostri rapporti. Il distanziamento sociale fa rima con sfiducia. Con paura. Con diffidenza.
Dovrà essere ricostruito un rapporto sociale, dovranno essere ricostruite nuove traiettorie di fiducia umana fatta anche di comportamenti diversi e di fisicità diversa.
Accanto a tutto questo si pone, perchè non è più possibile rinviarlo, ed anzi forse l’attuale crisi ci porta proprio al crinale corretto per affrontare una volta per tutte il tema dei beni comuni e cioè acqua, energia, trasporti, scuola, salute, beni culturali e ambientali.
Per la filosofa Luigina Mortari “è tempo di rompere il legame economico scientista che ci governa: la realtà è complessa e le tecniche da sole non la interpretano”.
Così, in una fase nuova della nostra storia secolare, ci sono due modi per affrontare le sfide della “società del rischio” amplificata da questa esperienza di pandemia in epoca post-moderna o come scrive Touraine “ipermoderna”.
Puoi denunciare la sofferenza, le diseguaglianze presenti e crescenti per effetto dei cambiamenti e dei processi accelerati oppure puoi ricercare strade nuove da percorrere, quelle meno battute, come ad esempio il governare le trasformazioni cambiando gli stili di vita, suggerendo soluzioni e modi e, passando ad un livello diverso, affrontare la sfida dei beni comuni (Paul Samuelson) in un pensiero innovativo proprio perchè dettato dalla necessità del presente, ma soprattutto del futuro.
Hanno scritto di recente Dotti e Rapacci “Si tratta di superare la dicotomia pubblico/privato ancora dominante nel pensiero e nelle pratiche economico-politiche, per sviluppare un sistema che faccia spazio al “terzo pilastro”, all’economia civile, consentendo una coabitazione armoniosa e proficua tra tutti gli attori. Servono nuove forme di alleanza e mutualità, per ritessere legami sociali che si vanno allentando, lavorando sia sul lato della domande di tutela, attraverso il contrasto alla pura e semplice privatizzazione dei servizi, sia su quello dell’offerta, con il sostegno a nuove forme di ricomposizione del risparmio, dell’investimento e dell’assicurazione secondo basi neomutualistiche” (L’Italia di tutti – Dotti e Rapacci).
Dunque due strade davanti a noi, il farsi prendere dall’angoscia, dal pessimismo, il cadere nelle braccia della paura come vorrebbero certamente i populisti o il cercare di governare l’innovazione e accettare la sfida sperimentando soluzioni diverse e nuove e non ortodosse o legate ai dogmi tenocratici. E, così, mi piace chiudere questa riflessione con i versi del poeta per antonomasia della frontiera kennediana, Robert Frost e, dopotutto, anche noi abbiamo una nuova “frontiera” da affrontare con spirito libero, nuovo e diverso. “Questa storia racconterò con un sospiro. Chissà dove fra molto molto tempo: divergevano due strade in un bosco, e io……. io presi la meno battuta, e di qui tutta la differenza è venuta”.
Roberto Molinari, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Varese
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