Effetti collaterali del lockdown.
Fase 1. Sto per intraprendere la breve camminata consentita: pochi passi nel giardino condominiale che circonda un gruppo di edifici.
Un silenzio irreale pervade questo tiepido pomeriggio di piena primavera e contribuisce a rendere più dura l’accettazione dell’isolamento.
Due fratellini che conosco, e solitamente incrocio negli spazi comuni, sostano sul prato dove hanno depositato alcuni giochi.
Nel lontano passato (ormai possiamo chiamare così il lungo tempo pre – covid) le nostre relazioni, nei fugaci incontri nell’atrio, sono state di tipo formale: qualche chiacchiera, una domanda mia e le risposte un po’ distratte di bambini super impegnati nelle consuete attività.
Ora i due mi corrono incontro incuranti del distanziamento sociale; li devo fermare alla giusta distanza.
Indugio.
Si rivolgono a me come ad un’amica di lunga data. Mi raccontano della scuola: con un fiume di parole mi intrattengono sui compiti, sui compagni, sulle maestre.
Diversamente dal solito non mostrano ansia di scappare via per continuare a giocare.
Mentre li saluto e mi allontano li osservo tornare alla postazione nel prato.
Non colgo nella loro postura e nei loro gesti la gioia e la freschezza soliti. Non hanno fretta di riprendere a giocare, sono due fratelli che il coronavirus sta obbligando a una convivenza forzosa.
Mi sembra che si muovano come se avessero esaurito la voglia di divertirsi.
Mai come ora i due sono stati tanto vicini, mai gli era stato chiesto di sostenersi così lungamente a vicenda, mai la loro condivisione dello spazio familiare era stata tanto pressante.
Hanno bisogno della gente.
Come me: anch’io spero di incontrare qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere.
Poco dopo, nei pressi di un altro condominio, vedo nel prato una bimba piccola con il padre.
Anche se non mi conosce mi corre incontro, si precipita incurante delle distanze a cui la debbo richiamare.
La bambina mi parla di quello che sta facendo e di dove sta andando, così felice di trovarsi fuori di casa.
Mette in campo una socialità fuori dalle consuetudini dei tempi normali quando si viene istruiti a non parlare con gli estranei. Perché a chi non si conosce si può rispondere per educazione, se interpellati.
Il padre la richiama e lei si allontana a malincuore.
Raccogliendo le riflessioni di questi giorni penso al peso di questa vita reclusa per noi adulti e sul maggiore carico di questo stesso peso sulle spalle più fragili dei bambini.
I bambini sono provati; anche quelli che hanno la fortuna di vivere in un buon clima relazionale, che hanno genitori attenti, in grado di fornire il necessario supporto affettivo. Alcuni appaiono debilitati da quest’ esperienza di una vita -non vita che mortifica l’attività motoria, il gioco, la relazione, la vicinanza con i coetanei, fatta di contatto fisico, di abbracci, di spintoni, di corpi materiali.
Che cosa ho letto nel loro sguardo? Non la spensieratezza dell’età, non la gioia della libera uscita, neppure il desiderio di tuffarsi nella finzione che ogni gioco infantile sa attivare.
Ho letto nel loro comportamento un grande bisogno di comunicare con gli estranei.
Ho visto nei loro sguardi fame di vita sociale, di un mondo esterno alla casa, di quella quotidianità arricchita dalla presenza degli altri, dagli incontri casuali, dalle presenze anche solo di sfondo, come possono essere i vicini di casa.
Oso dire che i bambini dell’era corona virus a me sono parsi affamati di parole e di sguardi che stanno oltre quelli dei genitori.
Mi sovviene il proverbio africano, citato spesso da educatori e pedagogisti, che dice: “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”.
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