Non è tempo per visitare questo museo, ma ne ho sentito parlare e dobbiamo sperare di poterlo presto mettere in programma. Il “Museum of Anthropocene Technology” (MAT) a Laveno Mombello è un piccolo museo creato da Frank Raes, che fino a poco tempo fa lavorava presso il Joint Research Centre della Commissione Europea a Ispra. Lì ha diretto le ricerche sull’inquinamento atmosferico e sui cambiamenti climatici. Da 10-15 anni Frank è attivo sulla comunicazione della crisi climatica e il MAT è il suo modo di continuare questo lavoro.
Da tempo si dice che la sfida del cambiamento climatico debba essere affrontata nella sua dimensione profonda, sistemica, coinvolgendo le scienze umanistiche, per stabilire connessioni con i diversi aspetti della nostra cultura.
Il Museo, secondo il suo ideatore, “è un pretesto per riflettere, insieme ai visitatori, su come va il nostro mondo: da dove viene e dove sta andando”. Il tema di fondo è quanto noi umani siamo intrecciati con i non-umani: l’aria, le montagne, gli animali, la natura.
Nel concreto, tratta di una sperimentazione di diversi possibili allestimenti, con l’obiettivo di trovare collegamenti inaspettati: un metodo irrinunciabile per capire il nostro mondo e il nostro tempo attraverso la “meraviglia”, il “dubbio”, per giungere al “cambiamento”. E al cambiamento ci si deve attrezzare: basta mettere in fila la pandemia in corso, le guerre, i rifugiati ammassati ai confini, le locuste in Africa, gli incendi in Amazzonia e Australia e le temperature ai Poli della Terra.
C’è qualcosa di sbagliato nel modo in cui viviamo sul nostro Pianeta ed è necessario cercare una nuova prospettiva. Il Museo si rifà a come il Rinascimento abbia saputo creare un nuovo ordine a partire dal caos dei secoli precedenti. Mostrando oggetti, cose e problematiche dei nostri tempi si può valutarne la compatibilità o meno con un futuro che sembra molto precario per la specie umana. “L’uomo e la natura devono compenetrarsi”.
Avendo avuto notizia di questa eccezionale occasione che ci viene offerta a due passi da casa (da cui, peraltro, dobbiamo ancora aspettare per uscire) ho pensato di sintetizzare in un breve pensiero un messaggio affine, credo, a quello di Frank Raes e che mi viene dalla frequentazione dell’Associazione Laudato Sì di cui sono uno dei co-promotori. Parto dal coronavirus per toccare un cambio di mentalità fortunatamente in corso, ma non ancora presente tra i governanti della Terra.
L’onnipresenza di un minuscolo virus ha generato nel pensiero della gente comune la percezione che tutto è interconnesso: veniamo tutti – dalle monete che teniamo in tasca, al cuore che ci pulsa in petto, al cervello che coordina le nostre azioni, all’albero che ci dà ombra, alla cellula entro cui si annida un virus – dalla medesima “polvere di stelle”, che si è formata, riorganizzata ed evoluta in una “cosmogenesi” permanente, che dura da 14 miliardi di anni. Siamo totalmente interdipendenti, in un inestricabile intreccio tra la luce, l’acqua, l’atmosfera, i batteri, i virus, gli uccelli, gli umani. L’intero vivente cioè, possiede un’unica storia comune, un medesimo alfabeto genetico di base e gli elementi che popolano l’immenso universo non sono differenti da quelli che modelliamo o trasformiamo in prodotti con energia e lavoro, o con cui giocano i nostri figli, o che consentono di sfrecciare affannosamente sulle strade. Se l’Universo ha una storia comune, come affermala scienza e la cosmologia recente ed anche Francesco nella sua Enciclica, il genere umano – che ne è l’osservatore cosciente a distanza di miliardi di anni – deve assumersi la responsabilità di farla continuare o cessare, almeno per quanto riguarda la propria specie, ultima arrivata, ma inscindibilmente interconnessa alla biosfera. Questa decisione, da far convivere con la giustizia sociale, sarà inevitabilmente l’idea di fondo di una rifondazione della politica e di un nuovo “contratto” di democrazia sociale, che travalica i confini delle nazioni. Questa è la mia speranza in giorni di profonda riflessione e anche di tragico turbamento.
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