Che ci fosse qualcosa che non funzionava nel modo giusto, l’aveva capito da tempo. Erano comparsi segnali e li aveva sottovalutati, un po’ perché per natura restio a prendersi cura di sé, un po’ perché aveva intuito che ci fosse sulla soglia un problema serio.
Tutto era iniziato con un malessere generale, una stanchezza insolita. Problemi di ricambio e poi dolori al braccio destro. Ecco, il dolore. Era quel dolore inspiegabile al braccio che inquietava.
Inizia così la storia di una malattia. Non da punto di vista medico, ma nei riflessi che la malattia ha nei pensieri, nelle parole della vita di ogni giorno. E nelle ansie. Questo vorrei raccontare.
L’inizio è quello di tutti gli incontri con la malattia: i primi dolori, i dubbi, le visite mediche e il responso. In questo caso: un tumore al rene. Una cosa risolvibile, si pensa: si toglie il rene e con un rene solo si può andare avanti senza grossi problemi. Poi emergono problemi anche all’altro rene e il responso finale: intervento chirurgico e dialisi.
Inizia come tante la storia di questa malattia e dell’avanti e indietro dall’ospedale per attaccarsi a una macchina. Iniziano i viaggi, con il servizio della Medical Air, i pensieri che faticano a chiarirsi. E inizia il rapporto con una macchina, un rapporto che dovrà durare tutta una vita. Man mano subentra una specie di rassegnazione positiva. Certo, è un impegno tutte le settimane passare la mattina in ospedale. Ma è necessario e indispensabile, come il mangiare, il bere, l’andar di corpo. Si fa presto a farsene una ragione. Ma quel dolore al braccio destro insiste. Un dolore crescente, che non permette sollievo. Cosa sarà mai?
Intanto, con la dialisi si viene a creare una specie di “accordo”. In ospedale i pazienti iniziano a conoscersi, uniti dallo stesso problema. Si scambiano parole. Le donne sono in maggioranza. e raccontano i loro dolori. Le donne raccontano sempre con dettagli i loro dolori. E si dilungano nei ricordi. Si soffermano di più sui ricordi marginali, quelli che non toccano il cassetto delle cose non risolte, quelli che non fanno male insomma. Parlano con eccesso di particolari di come preparavano quel tal piatto, la domenica. O quel dolce, fatto come una volta. Dicono cose da poco. Con gli uomini è diverso. L’attualità è sempre presente: il coronavirus di questi tempi è l’argomento ovvio, con tutti i suoi risvolti. E ognuno ha la sua versione, quella “vera”. E ognuno sa come sarebbe stato giusto fare e non fare. Anche qui l’analisi diventa tifo sportivo e ci si schiera. E poi Conte e l’Europa e la crisi e l’apertura dei negozi e la Merkel che ce l’ha su con gli italiani. E gli olandesi, anche sugli olandesi ci sarebbe da ridire. E avanti tutta. Poi ognuno ritorna alla sua “macchina”, si fa silenzio. Ecco, si fa silenzio. Altri si appisolano davanti allo schermo.
Il tempo passa e si arriva alla fine della seduta senza troppi cattivi pensieri. Anche con “la macchina della dialisi”, con il passare delle settimane, nasce un rapporto quasi umano. Sì, la macchina ha i suoi rumori, i suoi click, i suoi lievi sfiati. Li coglie tutti come una musica lui, appassionato di musica barocca (“Come mi sarebbe piaciuto saper suonare l’organo. Ma era troppo difficile per me. Ecco, forse il violoncello”). Ogni particolare ha il suo rumore riconoscibile, o meglio il suo suono che umanizza quella macchina, che la rende amica. Anche l’allarme, pensa seriamente, ha la sua musica definita: suona Bach.
Intanto il dolore al braccio, cresce. Prima una diagnosi come epicondilite poi un’altra verità: metastasi alle ossa. Inaspettate. Inizia così un nuovo percorso parallelo. Alle dialisi vanno aggiunte le chemioterapie e le radioterapie. Serve trovare un equilibrio tra le terapie e tenere sotto controllo il dolore. I medici cercano la cosa giusta per arginare il tumore e il dolore. Ecco – pensa – è bello che i medici e infermieri diano pari importanza alla tecnica e alle parole, nel rapporto con il paziente. Trasmettono chiaro realismo. Non illudono, spiegano.
Tra avanti e indietro, dialisi, chemio e tempo passato in casa sul divano a cercare quiete e riposo, lo spazio per i pensieri ora si dilata. Si dilata anche se a fatica lo spazio per la lettura. “E quello per la meditazione religiosa – spiega – Non ho risolti i miei dubbi. Ma almeno li ho guardati, i miei dubbi”.
Aumenta anche lo spazio per le relazioni. È lo spazio per i fratelli, i nipoti, i parenti, i cugini e gli amici sia pure con la distanza dovuta al tempo del virus. “È stato meraviglioso questo. Dico proprio questa parola: meraviglioso e incredibile. Mai avrei pensato a una cosa simile”.
E poi è emerso il “tempo del tempo”: quel tempo che crea una relazione con il passato e con il futuro. Il passato si affaccia e chiede di prendere in esame le cose fatte e quelle non fatte, i sogni accantonati di un lavoro diverso, la montagna, la musica, le vicende di famiglia, la mamma. Sì, la mamma, ospite in una casa di riposo senza la possibilità in questi tempi di virus di poterla incontrare: ecco, questo è un pensiero di peso.
Il tempo del futuro ha spazi sconosciuti, spazi di attesa per capire come si comporterà la malattia. “Ma non ho paura. Mi spaventa un po’ il pensiero del dolore fisico, ma non ho paura” È il tempo dell’angoscia nascosta. Ma è anche il tempo dell’attesa, delle cose in sospeso in attesa di soluzione. Delle cose incerte. Ma proprio per questo è lo spazio della speranza.
Resta il tempo presente. È il tempo dei pensieri. Ed è questo il tempo che ci è dato.
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