Scambi di accuse, invasioni di campo, strumentalizzazioni politiche. Si discute parecchio in questi giorni di libertà religiosa e le dispute confondono i confini netti e consolidati tra culto e politica, tra Chiesa e Stato. La mela della discordia è il prolungamento del divieto di celebrare le messe annunciato dal premier Giuseppe Conte nel decreto presidenziale sulla cosiddetta Fase 2 della lotta al contagio, una decisione presa su indicazione del Comitato tecnico-scientifico. Apriti cielo. Nel giro di 24 ore il virus Covid19 è riuscito nell’impresa di rimescolare le carte di antichi e nuovi patti, evocando addirittura i dissidi della Questione Romana al tempo di papa Pio IX.
Partiamo dall’inizio. La libertà religiosa è regolata in Italia dalla Costituzione: “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata – dice l’art. 19 – di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. E l’art. 7 specifica che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. I rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi firmati nel 1929 da Mussolini e dal cardinale Gasparri e dall’Accordo di revisione siglato nel 1984 da Craxi e dal cardinale Casaroli. All’improvviso è tutto carta straccia?
Ad accendere la miccia ci ha pensato il presidente dei vescovi europei Angelo Bagnasco pronunciando parole durissime contro il decreto Conte: “Se fosse una voluta violazione della libertà di culto, sarebbe gravissimo”. Il premier è costretto a precisare che “il governo rispetta tutti i principi costituzionali” e che “non c’è alcun atteggiamento materialista da parte del governo o mancanza di sensibilità”. Ma non basta a impedire che la politica si avventi sull’incidente diplomatico. Matteo Salvini, che già voleva riaprire le chiese a Pasqua, coglie la palla al balzo e lancia l’idea di scendere in piazza per riunire l’area antigovernativa (e antibergogliana).
A ruota Giorgia Meloni annuncia un emendamento di Fratelli d’Italia al decreto-legge sul lockdown che – dice – “limita pesantemente i diritti fondamentali degli italiani e calpesta la libertà di culto impedendo la celebrazione delle messe con i fedeli”. La frittata è fatta. Un principio saldo e duraturo come la libertà di culto è ormai preda della polemica politica. All’interno della Chiesa non si fanno attendere le reazioni perplesse di fronte all’intervento del presidente dei vescovi. C’è chi fa notare che non è in discussione la libertà di culto, ma l’opportunità di permettere una riunione religiosa che è tecnicamente un assembramento come un altro, a scuola o al cinema.
Scomodare altri riferimenti giuridici od etici è fuorviante e poco corretto, oltre che poco rispettoso verso chi cerca di tutelare la salute di tutti. Altri riconoscono che per la prima volta dall’entrata in vigore della Costituzione, l’esigenza di tutelare il bene giuridico della salute ha comportato una ampia limitazione del diritto di libertà religiosa. Ma “ciò che viene sospeso non sono i riti religiosi né, tantomeno, i riti religiosi di una determinata confessione. Si sospendono le forme assembleari dei riti di tutte le religioni. Siamo nell’ordine proprio dello Stato, in un caso limite di bilanciamento tra suoi beni costituzionali, la salute e, appunto, il sentimento religioso”.
C’è infine chi osserva che la voce della Cei avrebbe dovuto farsi sentire nella sede più opportuna, in Vaticano, anziché rivolgersi ai media con un attacco frontale al governo esponendosi, inevitabilmente, all’altolà del papa che disapprova la strategia dello scontro. Francesco vuole evitare che tra i vescovi prevalga la linea del muro contro muro nei confronti dell’esecutivo italiano. Le sue pacate parole (“preghiamo il Signore perché dia a tutti noi prudenza e obbedienza alle disposizioni, perché la pandemia non torni”) sono un richiamo alla ragione, al rispetto delle norme, al dialogo e al buon senso. E un rifiuto dei fondamentalismi estranei al suo pensiero.
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