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Politica

LEZIONE PORTOGHESE

MANIGLIO BOTTI - 08/05/2020

Rui Rio e Antonio Costa

Rui Rio e Antonio Costa

L’Italia non è il Portogallo. È chiaro. Però a molti sarebbe piaciuto che lo fosse, almeno nelle sue figure politiche più rappresentative, qualche giorno fa, quando il capo dell’opposizione Rui Rio – un nome da calciatore specialista nelle aree di rigore altrui più che da politico – s’è rivolto al suo premier Antonio Costa grosso modo con queste parole: seppelliamo l’ascia di guerra, la dissotterreremo nel momento in cui saremo riusciti a sconfiggere il mostro coronavirus; da noi dell’opposizione, dunque, oggi vengano solo impegno e collaborazione.

Non facciamo i nomi dei politici italiani, quelli che stazionano a Palazzo Chigi e quelli che ambiscono, in qualche maniera, a ritornarvi. Ma un piccolo paragone andrebbe pur fatto. Il Portogallo – paese di tradizioni immense nel passato – ha un’estensione che è poco meno di un terzo di quella italiana, il suo numero di abitanti assomma quello della nostra sola Lombardia. Di conseguenza il numero dei contagi da coronavirus, e quello dei decessi, è molto, molto ridotto rispetto al nostro nazionale (in questo, purtroppo, siamo i primi in Europa). Tanto che non sappiamo in quale fase operativa anti coronavirus – se ancora la Uno o la Due – gli amici portoghesi si trovino a battersi.

 Ma per loro questa micidiale pandemia – le vite, le morti, le sofferenze patite dai loro connazionali – non è stata un’occasione fuggevole da annoverare tra i momenti più o meno favorevoli di una legislatura, è stata invece un’occasione per dimostrare spirito di solidarietà e l’unione di un popolo.

Si può dire altrettanto in Italia? Per i nostri oppositori, che a denti stretti accettano il governo in auge, anzi non lo accettano per niente, il coronavirus (centinaia di migliaia i contagi, trentamila le vittime) è stato ed è un alleato, un accidente da sfruttare al massimo grado. Ci sono riprove che se al governo ci fossero stati loro – in fondo Salvini era ministro dell’Interno fino a otto mesi fa e “Giuseppi” Conte era il suo presidente del consiglio – le cose sarebbero andate meglio? Farlo credere ai fan è facile, più difficile – impossibile – accettarlo, anche seduti sul divano e esasperati prigionieri in casa.

È la storia a dire l’esatto contrario. Si resta sbigottiti, quando si vede come in Italia, siano tutti specialisti, per esempio, nell’indicare nella Germania il grande cattivo d’Europa. A nessuno viene in mente che nel momento in cui i tedeschi si rimboccavano le maniche e lavoravano a testa bassa per la riunificazione economica e sociale del loro Paese, noi il nostro – e con la guida degli stessi che oggi si ergono a giudici – volevamo dividerlo, a pancia piena e cancellando il passato. Le ruberie dei nostri partiti e dei loro uomini di comando finivano sulle copertine dei giornali del mondo, mica come invenzioni o provocazioni.

È triste e squallido ma è così: la memoria è cortissima. Nessuna meraviglia che la strage del coronavirus sia allora un pretesto, che non rappresenti e non possa mai rappresentare un evento capace di cavare per reazione il meglio di un carattere di un Paese. Rimane – ancorché grave perché si gioca su migliaia di morti – un pretesto che può tornare utile per “bassi” conteggi elettorali e riconquiste di potere.

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