La scuola ha la grande responsabilità di formare la classe dirigente di domani. E proprio le vicende delle ultime settimane dimostrano ampiamente come ci sarebbe bisogno di una classe dirigente competente, generosa e anche tecnologicamente preparata.
Ora le scuole sono chiuse; bambini, ragazzi, adolescenti a casa; docenti impegnati nella difficile sfida di dialogare ed insegnare a distanza. Un mezzo anno disperso nel vento dell’emergenza. Un’esperienza che sicuramente allargherà il divario tra ricchi e poveri, tra famiglie che possono almeno in parte supplire alla mancanza della scuola e famiglie che non hanno tempo e modo di far utilizzare strumenti tecnologici o di dedicare tempo e conoscenze ai figli.
Un’emergenza che mette ancora più in risalto le difficoltà della scuola italiana. Basti pensare che una pur graduale riapertura è ostacolata dal fatto, secondo gli ultimi dati Ocse, che l’età media degli insegnanti è di 49 anni, cinque in più della media dei paesi industrializzati. Se si comprendono le scuole materne la media sale a 52 anni. Questo vuol dire che c’è una percentuale significativa di insegnanti con più di 60 anni, un’età considerata più di altre a rischio di contagio. Un ulteriore dato negativo è il fatto che meno di metà dei docenti (il 47%) “frequentemente” o “sempre” fa utilizzare agli studenti strumenti digitali lezioni o lavori in classe. Appena un docente su tre ritiene di aver ricevuto una formazione in linea con le possibilità tecnologiche.
Ma l’emergenza pandemia sta creando ulteriori problemi. In particolare alle scuole paritarie che si trovano di fronte ad un forte calo delle rette pagate a causa delle difficoltà economiche delle famiglie. Se non ci saranno, come avviene per altri settori, interventi di sostegno, il rischio concreto è che alla ripresa di settembre molti istituti non potranno riaprire i battenti e almeno 300mila studenti dovranno passare alla scuola pubblica. Con un costo aggiuntivo per lo Stato superiore ai due miliardi.
Ma non c’è solo il tema economico. Il problema più rilevante è che si andrebbe ancora di più ad affermare il monopolio statale dell’educazione, un monopolio che è “la vera, acuta, pervasiva malattia della scuola italiana. Il monopolio statale nella gestione dell’istruzione è negazione di libertà; è in contrasto con la giustizia sociale; devasta l’efficienza della scuola. E favorisce l’irresponsabilità di studenti, talvolta anche quella di alcuni insegnanti e, oggi, pure quella di non pochi genitori”. Sono parole di Dario Antiseri, uno dei più illustri filosofi italiani, in una lettera raccomandata ai politici italiani: “Più libertà per una scuola migliore” (Ed. Rubbettino, e.book scaricabile gratuitamente). Un libro di poche pagine, ma drastico e tagliente nei giudizi, per sottolineare come anche nel sistema scolastico una sana e aperta concorrenza non può che aiutare la stessa scuola pubblica a migliorare la propria offerta formativa. Una competizione nel senso etimologico della parola: tendere insieme verso una stessa meta. Eppure l’Italia corre sempre di più verso un controllo sempre più esteso dello Stato in molte dimensioni economiche e sociali: eppure i ponti cadono sia che siano gestiti dai privati, come a Genova, sia che siano gestiti da enti pubblici, come il ponte sul Magra.
Per la scuola è in gioco il futuro dei giovani, ma è in gioco anche la libertà come valore così come il diritto dei genitori di scegliere come educare i propri figli. Ma purtroppo, come scrive Antiseri, le scuole private in Italia sono libere solo di morire.
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