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Quella volta che

LE BRICIOLE DI PIERO

MAURO DELLA PORTA RAFFO E MASSIMO LODI - 30/04/2020

Lo scrittore (al centro) con le copertine di due sue opere: Il piatto piange e Viva Migliavacca! (da Wikipedia)

Lo scrittore (al centro) con le copertine di due sue opere: Il piatto piange e Viva Migliavacca! (da Wikipedia)

-Caro Mauro, quella volta che…

“Caro Massimo, quella volta che conobbi Piero Chiara”.

-Epoca?

“1949”

-Pantaloni corti…

“Cortissimi. Avevo cinque anni”.

-Occasione?

“La memorabile mostra di scultura nel parco di Villa Mirabello, organizzatore mio padre Manlio, direttore dell’Ente provinciale per il turismo. Chiara è un intellettuale già noto in provincia e fa parte della commissione artistica. Papà mi porta con sé durante una visita, incontrandolo. ‘Questo è Mauro’, gli dice. ‘Ciao Mauro’, sorride lui. E la storiella finisce lì”.

-Per ricominciare quando, in forma di storia?

“Inizio dei mitici Sessanta, quarta liceo scientifico. Ho già simpatie liberali e decido di presentarmi alla sede del Pli, in via Bernascone, con qualche compagno di scuola. Sergio Puerari, Pierluigi Riva, altri. Conosco per davvero Chiara, leader provinciale del partito. Lo affianca la segretaria Gigliola, che diventerà una riservata istituzione del partito. E la collaboratrice fedele di lui scrittore”.

-Subito arruolati, tu e il resto della compagnia…

“Immediatamente. Bisognava occuparsi del reclutamento di giovani. Ma di giovani liberali ce n’erano pochi in circolazione. Lavoro difficile”.

-Riuscito?

“Ma sì. Qualcuno lo convincemmo. Ci presi gusto e diventai un frequentatore pressoché quotidiano del posto. Parlavamo di politica, e ok. Ma anche d’altro. Di letteratura, di arte, di avventure, di gioco. Chiara era un affabulatore naturale. Prendeva la parola e non la mollava più. Imparai molto. Di Malagodi, Fanfani, Nenni, Longo eccetera. Ma anche di carte, dadi, biliardo, roulette”.

-Ti chiese di scendere in campo per il Pli?

“In più d’una circostanza. La prima alle comunali del ’70, feci una buona figura. Tanto che venni promosso a segretario cittadino e a vice segretario provinciale. Un po’ per qualche merito mio, un po’ per qualche necessità sua”.

-La principale?

“Era diventato, dal successo del ’62 con ‘Il piatto piange’, uno scrittore popolare. E non gli pareva conveniente che si risapesse troppo del suo impegno politico. Continuava a esercitarlo, ma preferibilmente nell’ombra. La luce toccò a me. Una luce, diciamo così, in chiaroscuro: nel senso che dovevo sobbarcarmi incombenze non sempre entusiasmanti”.

-Però, vuoi mettere: essere ogni giorno a contatto con Chiara…

“Certo un privilegio. Scoprendo di lui gli aspetti più singolari”.

-Esempio?

“Nelle pause dell’attività politica, Piero continuava a frequentare i caffè. E a giocare a carte. Talvolta mi consentiva di scortarlo. Un giorno, sedutosi al tavolo di scopa d’assi, non finiva più la sfida: una partita dopo l’altra. A un certo punto si voltò dicendomi: vai a pisciare tu per me”.

-Ordine eseguito?

“Gli ordini si eseguono. Si discutono dopo, semmai”.

-Dal tavolo alla tavola: spesso vi trovavate al medesimo desco…

“Senza imbandirla. Piero era di pochi e semplici piatti. Prediligeva i primi. Una pastasciutta meglio di qualunque altra cosa. Poco vino. E un’abitudine strana, alla fine del pasto: raccoglieva le briciole tutt’attorno e se le ingozzava con un’abilità così spiccata da non impedirgli, durante il gesto, di continuare a parlare”.

-Ammirava gli chef?

“Non si chiamavano ancora così. Erano i cuochi. Ai quali andavano preferite le cuoche, diceva Chiara: le più brave in assoluto”.

-Come cambiò dopo l’affermazione letteraria?

“Nell’abbigliarsi: ci mise una cura particolare. Si faceva confezionare ogni capo: scarpe, vestiti, camicie, guanti, cappelli. Tutto rigorosamente su misura. Fu il segno esteriore del fatto che era diventato Piero Chiara. In precedenza era Piero Chiara. E basta. Alla notorietà, strameritata, andava reso omaggio. Il suo fu quello”.

-Ricordava volentieri il passato, i disagi, la gavetta?

“Ne era orgoglioso. Vi guardava con la malinconia dovuta agli anni giovanili. E con l’ironia che prezzemolava ogni sua memoria. Tipo: la rievocazione delle lunghe, noiose, semidormienti mattinate nelle aule giudiziarie, quando assisteva alle udienze in qualità di cancelliere. Si rifaceva nel pomeriggio: abitava in una mansarda del palazzo Sciarini di via Magatti, e lì leggeva, studiava, scriveva. La sera, e poi la notte, alé col gioco. Il mattino andava in tribunale solo perché costrettovi”.

-E le donne?

“Ammirate e amate. Poi corteggiate e sposate. Sempre privilegiate e raccontate dalla vena di romanziere. Venerava la madre: lo confermano le sue righe più commosse”.

-Che gli parve, entrando nel Gotha letterario?

“D’essere arrivato dove pensava di poter arrivare. Con razionale umiltà, si capisce. Una certa intellighenzia guardava con snobistico distacco ai trionfi di vendite dei suoi libri, ma era un atteggiamento che non lo feriva. Gli bastavano le parole dell’editore, Arnoldo Mondadori: con gl’incassi dei tuoi libri copro i buchi delle perdite degli altri”.

-Fu felice quando lo nominarono giurato del premio Campiello…

“Era la consacrazione, per uno scrittore. Ma anche l’inizio d’un mare di seccature. Ogni anno, a ridosso della scelta dei finalisti, ecco il profluvio di telefonate, lettere, segnalazioni di pretendenti all’autorevole cinquina. Una stucchevole processione, alla quale non ci si poteva sottrarre”.

-Il prezzo della celebrità…

“E la consapevolezza che i premi letterari sono spesso un terno al lotto. Ne fu testimone proprio Chiara quando, come concorrente, partecipò a un’edizione dello ‘Strega’ con ‘Il pretore di Cuvio’. Mi disse alla vigilia del verdetto: arriverò secondo, vincerà Manlio Cancogni con ‘Allegri, gioventù’. Ne sono sicuro”.

-Come mai ne era sicuro?

“Questo non lo so. Ma andò proprio così: primo Cancogni, secondo Chiara. Dopo l’esito, nei giardini del Ninfeo di Villa Giulia a Roma, il telecronista della Rai Luciano Luisi si accostò a Piero chiedendogli: è molto dispiaciuto del risultato? De minimis non curat praetor, fu la risposta in armonia col titolo del romanzo”.

-‘Il pretore di Cuvio’ divenne un film. Come altri libri di Chiara. Che rapporto aveva col cinema?

“Strettissimo. Non lasciava fare a sceneggiatori e registi, faceva anche lui. Quando Fellini girò ‘Il Casanova’ e chiese, ottenendola, la consulenza di Chiara che di Casanova sapeva tutto, patì la delusione d’essere salutato dopo poco tempo da Piero. Il regista aveva di Casanova un’idea da sciupafemmine alla Don Giovanni. Ciò che non pensava Chiara, secondo il quale Casanova amava le donne senza disprezzarle, al contrario di Don Giovanni”.

-Andò meglio con Risi nella ‘Stanza del vescovo’ e con Lattuada in ‘Venga a prendere il caffè da noi’, tratto dalla ‘Spartizione’…

“Risi, un alto borghese, era culturalmente distante da lui. Lattuada, un piccolo borghese, gli era affine. Il trait d’union fra i due fu Ugo Tognazzi, protagonista di entrambe le opere, interpretando l’Orimbelli nella prima e il Paronzini nella seconda. L’intesa fra Tognazzi e Chiara nacque spontanea, si prendevano naturalmente. Forse…”

-Forse?

“Forse perché nati lo stesso giorno, il 27 marzo. Del 1913 Chiara, del 1923 Tognazzi”.

-Dobbiamo credere alle empatie zodiacali?

“Crediamo a tanto altro di più vago, perché no a questo?”.

-Lui ci credeva?

“In fondo toccò il cielo con un dito, raggiungendo la fama. Dunque di cose astrali avrebbe potuto disquisire a ragion veduta”.

-Ma non lo fece…

“Custodiva gelosamente alcuni separé della sua vita. Conserviamo quel distanziamento”.

-In armonia col tempo d’oggi…

“Appunto. Nelle relazioni sociali, il piatto piange più che mai”.

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