Alla nona settimana di prigionia domestica da coronavirus ci si sente un po’ stanchi, psicologicamente e anche fisicamente. La riconquista degli spazi vitali è ancora confusa e affannosa. Il tempo dell’ottimismo e della grinta combattiva ostentata ai balconi e alle finestre con canti di buon auspicio, dov’era appena stato appeso il Tricolore, sembra già appartenere a un lontano passato. Adesso, ogni giorno, si continua a guardare verso la fine del tunnel – se c’è questa fine – con la speranza di intravedere uno spiraglio di luce. Ma nessuno per ora è in grado di dare certezze. Né lo scienziato, né tanto meno il politico. C’è molta incertezza. Anche sull’età di chi dovrebbe essere liberato.
La polemica, e forse anche un po’ di rabbia interiore, si manifestano nelle mascherine che mancano, nei tamponi che non si fanno e di cui non si dà per certo l’esito, nelle autocertificazioni (moduli diversi quasi uno a settimana) da compilare qualora si venisse fermati mentre si va a fare la spesa o si va in farmacia o al lavoro.
La polemica si allunga e si infervora tra i fedeli per le chiese che sono rimaste chiuse a Pasqua, e che tali rimarranno, tra i docenti e gli alunni per le scuole inibite alla frequenza (ma forse questo sarebbe il male minore se non fosse che i genitori si sono dovuti mettere al “servizio” dei loro ragazzi, specie i più piccoli, con conseguenze di fatiche e di preoccupazioni collettive). Per quest’anno va così, e c’era da aspettarselo come in una stagione di guerra: lezioni on-line là dove possibile, esami rimediati, maturità solo orali. Tutti promossi. Todos caballeros. Poi l’anno prossimo si vedrà.
Casa dolce casa, si dice: parva sed apta mihi… Le famiglie si sono forzosamente dovute riunire accanto al focolare, che ormai da decenni non esiste più sostituito da elettrodomestici vari. La tv su tutti. Più spesso, nelle grandi città, dietro a porte che si aprono su appartamenti condominiali angusti. In tre, in quattro, talvolta anche in cinque persone. Hai voglia a cantare sul balcone. Alla fine si resta senza fiato, e il corona virus non c’entra.
Le comunicazioni passano, dunque, attraverso le tv sempre accese, nella lettura di qualche giornale – sempreché si riesca a raggiungere un’edicola –, nel fare scorrere i social alla ricerca di amici e di “commilitoni” in questa impegnativa battaglia, nelle telefonate serali tra parenti e conoscenti.
“Che cosa hai fatto oggi?” “La mattina ho messo un po’ di ordine negli armadi: abiti smessi, i vecchi dischi, i libri, i cd, ho trovato vecchie foto, ho buttato giù velocemente una lista della spesa…”.
Non uscite di casa! Restate in casa! È dura per un giovane che dalla finestra vede spuntare i fiori bianchi dei ciliegi, un’altra primavera che si annuncia ma così diversa dalle altre… È durissima – e lo sarà ancora – per un anziano rimasto solo e che non aveva null’altro se non lo scambio di un saluto, di qualche parola di amicizia e di solidarietà.
È un 8 settembre perpetuo, senza bombe (per fortuna) ma con tristi elenchi enumerati ogni giorno dagli speaker delle televisioni: il picco è stato raggiunto? chi lo saprà mai, poi se ne riparlerà, si penserà alla ripresa… Per intanto, come dopo un 8 settembre qualsiasi, la guerra continua.
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