Abbiamo riscoperto la dimensione domestica e familiare della nostra vita. Lo abbiamo fatto forzatamente, per sottrarci alla furia del virus che ancora ci assedia. Abbiamo mantenuto come unico contatto quello dei telefoni e del web, e poi ci siamo guardati attorno, richiudendoci la porta alle spalle.
Nel silenzio, tra le stanze di casa e gli oggetti della quotidianità osservati da anni con distrazione, s’è posato lo sguardo ormai inusuale di chi pesa i giorni con ritmo lento.
Abbiamo tolto dagli scaffali libri ormai ingialliti, nostri o di chi li aveva posseduti prima di noi. Qualche viola del pensiero e qualche stella alpina è sbucata tra le pagine. Erano quelle che piaceva raccogliere in montagna a zio Chico, morto in guerra a soli ventitré anni. Mai conosciuto, ma sempre sentito raccontare da mamma, nei giorni di malinconia, come il migliore e il più bello dei fratelli.
Abbiamo ritrovato lettere o fotografie, diari di famiglia, biglietti natalizi ancora intonsi, ma soprattutto abbiamo avvertito quel calore, e i colori, che non sapevamo più sentire e vedere.
Abbiamo recuperato gli spazi, stanza per stanza, riordinato qualche angolino dimenticato, fatto lavoretti di minuto, necessario riaggiustaggio di altre cose dimenticate.
Ci siamo fatti, come tutti, tante domande. E date risposte rassicuranti: abbiamo un posto piacevole e confortevole dove poter aspettare. Soprattutto disponiamo di una tavola per mangiare un boccone e di un letto per riposare.
Siamo dei privilegiati, non siamo prigionieri. Non siamo profughi sbarcati dai barconi, non siamo perseguitati politici, inseguiti dai signori della guerra come i piccoli siriani terrorizzati dal nemico. E ci sembra quasi crudele sapere noi qui e loro- uomini, donne e quei bambini – alla deriva. Noi abbiamo le nostre stanze, e le possiamo riempire di musica per vincere le malinconie. Possiamo aprirle all’aria e alla luce, e far risplendere come cristalli i vetri, e sentirci soddisfatti del conforto delle nostre poltrone.
E poi i tempi lenti, e silenti, ci riconciliano con gli anni passati. Per i più vecchi, per noi che siamo anziani, s’è riaffacciata l’ovattata memoria di nevicate d’antan, del rombo discreto di rari motori, di lontani latrati di cani, tra solitarie voci e passi leggeri. O, addirittura, dell’ultimo carro di cavalli fiero del suo quotidiano sferragliare: nell’infanzia di qualcuno di noi passava ancora il barroccio, carico di materiali da costruzione, che percorreva il lungo viale di pioppi, dove poi sono venute su case su case, togliendo la vita agli alberi. Ma prima, dove c’erano i prati, coglievamo viole e primule in primavera, e aspettavamo il carretto dell’uomo che, come nella canzone di Battisti, “gridava gelaati”.
Una cosa ci manca però in concreto nell’isolamento da quarantena: il faccino -i loro occhi e sorrisi- dei nostri nipotini.
Ci hanno mandato video e foto e li abbiamo visti, abbiamo colloquiato con loro, per telefono e via Web, ma ci mancavano.
Ci mancavamo a vicenda. Di giorno e la notte, nei nostri sogni spezzati e preoccupati, c’eravate voi. Ma voi avete capito tutto.
E vi siete lasciato sfuggire quel sentimento di nostalgia, che volevate tenere pudicamente per voi, con le insegnanti che hanno continuato a lavorare e parlarvi, entrando da remoto nelle vostre case. Lo avete poi espresso nei biglietti d’auguri della Pasqua, disegnati a distanza per noi.
Lo avete manifestato infine nella voglia dichiarata di un abbraccio, appena saputo che ci si rivedrà finalmente la prima settimana di maggio.
“Forse ancora non potremo farlo…”
“Ma perché no”. E non era una domanda. Ma una dolce, furbissima imposizione alla prudente risposta.
Siete voi, i tanti nipotini, i piccoli e diligenti eroi di questa quarantena quaresimale che pare non finire più. Siete le prime, innocenti vittime, di questa estrema situazione di esistenza e resistenza. Eppure avete dato una risposta di volontà, di serietà da adulti, persino celato le legittime paure dietro la finzione del gioco. Avete usato con prontezza gli strumenti del web, accanto al difficile lavoro dei vostri genitori, e compreso i loro visi preoccupati, la tensione per un carico di lavoro che non concedeva spazio alla distrazione.
Voi, scolaretti senza scuola e senza banco, senza i sorrisi dei compagni, li avete sorretti con la pazienza e la saggezza dei vostri assennati pensieri di bambini.
Siete la vittoria sull’egoismo che sembra portare invece ora tutti noi adulti alla ribellione, all’ingratitudine, persino all’insofferenza per chi ha lavorato senza sosta – e sono tante le persone perbene, impegnate in ogni contesto.
In silenzio, per non impensierirci, avete compreso, cari nipotini, che il nemico serpeggia nel Mondo. Ma non vi stancate di credere che tra poco il disagio e la paura finiranno. E ci si rivedrà.
Siete i custodi volenterosi e diligenti di questo difficile, intristito pianeta.
La forza innocente della vita, la vostra freschezza e sincerità lo potranno forse ancora salvare.
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