Ricordo persino com’ero vestita: abito bianco di piquet il primo giorno, abito color crema con bolero e fiocco verde, il secondo. Erano i giorni degli orali dei miei esami di maturità. Allora gli esami vertevano su tutte le materie e gli orali si sostenevano in due giorni diversi, uno per il gruppo letterario e uno per il gruppo scientifico.
Ricordo la soddisfazione mentre rispondevo alle domande e vedevo i commissari che alzavano lo sguardo dalle carte e mi ascoltavano. Ricordo la gioia di avere finito, e finito bene. Ricordo soprattutto l’esame di italiano: il presidente era Dino Formaggio e fu lui a interrogarmi. Non fu un’interrogazione, fu un dialogo, durante il quale, a un certo punto, gli feci una domanda. Mi guardò e fingendosi incredulo mi chiese: “È lei che fa una domanda a me?” “Sì” gli risposi sorridendo, perché dietro all’incredulità avevo letto il compiacimento. Ecco: il mio esame di maturità si riassume in quell’incontro di sguardi, come fosse il riconoscimento del mio diritto di confrontarmi da pari a pari con una persona adulta e competente (Non conoscevo ancora la biografia di Dino Formaggio, ma ne avevo comunque percepito il valore).
Inutile dire che quello degli esami di maturità è uno dei miei ricordi più belli. Nonostante l’ansia e la paura dei giorni precedenti, nonostante la consapevolezza che la mia splendida classe si sarebbe dispersa e che non avrei più rivisto i miei insegnanti, almeno non nella veste di miei insegnanti. Nonostante lo studio, se non proprio “matto e disperatissimo”, comunque intenso, anche mentre prendevo il sole sul terrazzo. “Non arrivate agli esami pallide come cadaveri” ci aveva detto l’insegnante di Italiano – e ciò che egli ci diceva per noi era vangelo – “dimostratevi mature anche nel saper organizzare il vostro tempo”.
È per questo che, se avessi voce, chiederei al ministro dell’Istruzione e a tutto il Governo di non negare quest’esperienza ai maturandi del 2020. Sostenere l’orale di fronte a una commissione in carne e ossa o davanti allo schermo di un computer non è la stessa cosa. L’ha sottolineato bene Paolo Giordano sul Corriere del 18 aprile: “L’inedito assoluto dell’esame di maturità è che, per la prima volta, un gruppo di adulti in veste ufficiale è lì per ascoltare te, solo te, quello che hai capito, quello che hai imparato, quello che hai realizzato. Un gruppo di adulti che rappresenta un’entità ancora più ampia: lo Stato, il consesso sociale”.
Anche senza voler ricorrere al luogo comune dell’esame di maturità come rito di iniziazione all’età adulta, è indubbio che esso segna comunque la fine di un periodo lungo e importante della nostra vita – durante il quale possiamo sempre contare su qualcuno che ci sostiene – e l’inizio di un altro, in cui dobbiamo assumerci, a volte da soli, responsabilità più gravi. È giusto, quindi, che abbia una sua “sacralità”. E non può nascere un incontro di sguardi nella freddezza di uno schermo.
Se possiamo riavviare alcune attività economiche, perché non possiamo riaprire la scuola anche solo per gli esami orali? Non è difficile realizzare il “distanziamento sociale” in un’aula in cui ci siano solo sei commissari, un candidato e due testimoni.
So che alcuni studenti guarderebbero con favore un esame on-line, con un genitore dietro le spalle a suggerire, ma vuoi mettere la soddisfazione e l’autostima per una maturità superata solo con le proprie forze?
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