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Attualità

IL NUOVO BOOM

MANIGLIO BOTTI - 24/04/2020

italiaQualcuno, riferendosi con cauto ottimismo alla ricostruzione morale ed economica del Paese che ci sarà a conclusione della pandemia da corona virus, lo chiama “effetto fenìce”, richiamandosi con tutta evidenza all’uccello della mitologia, l’araba fenìce che risorge dalle proprie ceneri. Magari dimenticando di citare per intero il detto: “L’araba fenìce… Che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”.

Di solito il paragone della situazione attuale lo si fa con l’Italia dell’immediato dopoguerra, quando il Paese fu capace di risollevarsi dal disastro e di diventare – a breve ma con molti aiuti esterni – una forza dell’industria mondiale.

Premesso che, nonostante tutta la buona volontà, la storia non si ripete mai, vediamo di analizzare se il paragone ha una qualche somiglianza e una sua pur vaga veridicità.

S’è spesso affermato, dinanzi a uno stato gaudente e pieno di sciali, quasi sulla via della perdizione, che solo una catastrofe avrebbe indotto gli italiani a scuotersi, a ritrovare sé stessi, una loro identità perduta, un pur minimo senso di solidarietà. Cosa che, almeno in buona parte e non senza asperità, era accaduta dal 1945 in poi, almeno fino agli inizi degli anni Sessanta. Adesso che la catastrofe è arrivata, e contro cui ancora si sta combattendo, non si sa: il timore che, passata la buriana, tutto ricominci come prima e peggio di prima è grande.

A fare scorrere le notizie che compaiono e riappaiono sui social – che nel ’45 proprio non esistevano… – se ne ha il concreto sentore. Qualche settimana fa un artista del calibro di Francesco Guccini esprimeva per intero il suo pessimismo. Il nostro – diceva – è un popolo che si arrabbia, ma poi dimentica in fretta.

Tornando all’Italia di settantacinque anni fa, quando si diede il via agli anni che sarebbero stati poi chiamati del boom (grazie al Piano Marshall e grazie al dominio americano… Tutto quello che si vuole), la prima annotazione in evidenza è che quella era un’Italia giovane (età media 25/30) con una popolazione adulta che si portava dietro un’esperienza comune: la guerra, una guerra malamente perduta per di più. Un’Italia analfabeta, che era stata povera, in certi casi poverissima, e che voleva mettere in gioco tutta sé stessa per riscattarsi.

Quella di adesso è un’Italia vecchia – sempreché i vecchi bontà loro sopravvivano o siano riusciti a sopravvivere all’aggressione del virus – già abituata allo scialo e allo sperpero, permalosa e saccente, che sotto sotto vorrebbe ricominciare a correre sulla strada interrotta forzosamente per qualche mese.

Le diatribe tra i partiti (i grandi partiti di massa costituitisi dopo il fascismo) c’erano anche allora ma – se la cosa non sembrasse un po’ retorica – al contrario di oggi facevano più battaglia sui contenuti che su conquiste di voti, di clientele, di potere.

Furono, allora, momenti in cui si segnarono grandi passaggi: il cambio istituzionale da monarchia a repubblica, una considerazione positiva e ideale di un’Europa unita, la Costituzione che prese avvio l’1 gennaio 1948 con un fil rouge declamato fin dall’articolo 1: il lavoro. Gli italiani, pur di lavorare a testa bassa, accettarono una politica di bassi salari e anche una “pacificazione” nelle fabbriche che i sindacati in parte tollerarono. Gli industriali ebbero modo di operare in un laissez faire tutto sommato concesso da uno Stato presente ma non vessatorio e malevolo.

Il rapporto tra Settentrione e Mezzogiorno si manifestò (e non sempre fu l’esito di un sano sviluppo) con una delle più importanti migrazioni interne mai viste in nessun altro Paese europeo. Perché le fabbriche s’erano mantenute intatte al Nord – nel famoso triangolo Genova-Torino-Milano – mentre la guerra aveva fatto disastri soprattutto nel Centro e nel Sud.

Vi sono oggi le stesse condizioni del Paese? Esiste un rinnovato senso di solidarietà tra le famiglie nel segno del valore del lavoro e non della sopravvivenza comunque essa sia garantita? Questa di oggi, comunque la si guardi, è un’altra Italia.

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