Il coronavirus ci ha rivelato le fragilità insite nella società aperta.
Ci ha mostrato le crepe di un mondo che ritenevamo sicuro, ha sconvolto alcuni solidi punti di riferimento tra cui la libertà di varcare, e di lasciar varcare da altri, i confini nazionali.
Così i confini sono tornati: quelle divisioni, quelle barriere che negli ultimi decenni credevamo soppresse, quei limiti che in passato erano stati concepiti come strumenti di protezione dalle ingerenze esterne, istituiti per proteggerci dalle minacce dei popoli al di là del nostro territorio e per garantirci il mantenimento della nostra sovranità.
Sull’onda della caduta del Muro di Berlino avevamo interiorizzato l’idea che fosse naturale quanto inevitabile la caduta degli steccati tra gli Stati, che si potessero superare le divisioni tra uomini appartenenti a nazioni diverse.
Ci sentivamo pronti a essere cittadini dell’Europa e del mondo intero.
Oggi invece assistiamo a quella che uno studioso, Alessandro Ricci, ha chiamato “la vendetta dei confini”.
Oggi è il virus che ristabilisce i confini che ritenevamo aboliti.
Oggi è questo nemico invisibile che ci fa balenare, addirittura, l’esistenza di confini tra regioni dello stesso Paese, anche se al momento sembra trattarsi “solo” di muri innalzati per difendere la difformità di alcune scelte di tipo amministrativo.
La lotta contro il virus ridisegna i confini inducendoci a credere che siano indispensabili per garantire sia la sicurezza collettiva sia l’ordine interno.
Prima il mondo era aperto a tutti e a tutto.
Dal mondo globale ora siamo tornati a quello delimitato dalle pareti delle nostre case, ai volti coperti dalle mascherine: ci sentiamo protetti solo se rintanati nei nostri domicili.
In questo momento tempo e spazio sono rallentati. Esattamente il contrario di quanto ci aveva indotti a credere il mondo globalizzato con le sue frenetiche accelerazioni.
Ci siamo nuovamente circondati di confini che avevamo conosciuto noi anziani, anche nel semplice passaggio dalla nostra città alla vicina Svizzera.
Un concetto di cui giovani e ragazzi delle generazioni “Erasmus” non hanno esperienza.
Quando i confini saranno riaperti, ad epidemia superata, credo che non sarà così automatico dimenticare che ci sono stati.
Lo stesso Consiglio europeo aveva manifestato il timore che i controlli sui confini potessero minare la continuità delle attività economiche, interrompere le catene di approvvigionamento, danneggiare i mercati interni.
Nell’area Schengen ci si è” limitati” alla chiusura selettiva dei confini che restano aperti per la circolazione delle merci e del personale impegnato nel trasporto.
Tuttavia quello cui ci dovremo preparare sarà probabilmente una nuova edizione del concetto di confine che, più che tenere fuori gli altri, servirà a tenere “dentro” noi.
In questo periodo è il troppo tempo a disposizione che rende possibile divagare, spesso con esiti non sempre razionali, su questa forma di vita ristretta nel territorio dello stivale geografico, sui confini che prima erano aperti di Schengen, sulla mobilità senza vincoli, sulle future restrizioni, sull’addio alla globalizzazione che ci veniva data per realtà immutabile.
You must be logged in to post a comment Login