Il Mangano prima di essere un lattaio era un poeta. Era così evidente la cosa, che a Belforte lo dicevano tutti. E prima di esserlo con le parole un poeta, Rinaldo Mangano lo era nei gesti, nel suo modo delicato di rispondere alle domande, anche a quelle banali del commercio quotidiano. E lo era nel modo di muoversi, di estrarre dal frigidaire di legno la bottiglia di vetro del latte. Lo era perfino nel vestirsi: cappello a coppola grigio nei giorni di lavoro in sintonia con la vestaglia grigia, e cappello a coppola marrone nei giorni di festa in armonia con il completo color cammello.
Di salute cagionevole, non ricordo se per il cuore o per i polmoni, aveva aperto la sua latteria in non so che anno a Belforte, proprio di fronte alla villa del Ganna, quello che aveva vinto il primo Giro d’Italia. Vicino un prestino, un negozio di merceria (“la Mercantella”, per intuibili ragioni di altezza) e il negozio di salumi del Monti.
Ai due lati dell’ingresso della sua latteria, appesi in verticale, due grandi cartelli di lamiera alti un metro e mezzo rappresentavano burro, latte, salumi, pasta e ancora formaggi coi buchi, formaggi senza buchi molli e duri. Opere di buon gusto e di buon fattura. Più che insegne commerciali erano dei veri e propri quadri. Li aveva dipinti il Ricci, l’Antonio Ricci, un pittore di buona mano e di buon carattere, che abitava verso Biumo e che aveva già fatto mostre con scorci di Varese e ritratti su commissione.
Il Mangano era un poeta, dicevo, in quel dopoguerra pieno di cose da fare, in cui i commercianti avevano altri interessi, più concreti. Non certo la poesia.
Aveva iniziato presto a lavorare alla Tessilomnia, che allora era di gran voga vicino alla Caserma Garibaldi. Un negozio grande, il più grande di Varese, con il reparto uomo e il reparto donna e due scaloni ai lati. Qui metteva a posto le stoffe negli scaffali e faceva ordine a fine giornata. “Sembravo un bambino, tanto ero piccolo e magro – mi aveva raccontato – eppure avevo già tredici anni”. Come se tredici fosse tanto.
L’avevo intervistato per “Il Nuovo Ideale” su richiesta di Luciano Bronzi, che sarebbe diventato poi sindaco socialista di Varese e che aveva abitato due o tre case dopo, dove il viale fa angolo con via Podgora, nella casa dei Pellegrini. Bronzi mi aveva chiesto di intervistarlo perché Mangano aveva simpatie socialiste, credo, e perché voleva fare un omaggio ad una persona per bene del viale, quando il viale era come un paese.
Mi aveva parlato di sogni minimi, in quell’intervista. Erano sogni semplici, realizzabili in quegli anni, bastava crederci e volerli realizzare. Il suo sogno era di mettersi in proprio, di aprire una bottega per non dipendere da nessuno. Era diventato così lattaio o meglio “lattee e formaggiatt”, come ci teneva a sottolineare.
Aveva fatti i debiti, quelli giusti che si fanno per aprire un negozio. E aveva lavorato tanto. Le difficoltà di salute erano state superate insieme a una moglie energica, a volte aspra ma tenace.
Poi un giorno, sarà stato il 1964 o giù di lì, dalla poesia delle cose aveva deciso di passare a scrivere le sue poesie. In dialetto, naturalmente. Nel parlare aveva un dialetto ricercato, un po’ arcaico, mai banale. Spesso usava parole che dovevo farmi tradurre da mio padre, suo amico fin da ragazzo. Diceva “mantìn” per dire tovagliolo, quando ormai il dialetto si era imbastardito e tutti dicevano “tuvaieu”, ammesso che si scriva così alla francese. Diceva “patàffia” per indicare una grossa macchia di latte sulla vestaglia, oppure “parlà patènt” quando ormai si usava dire “parlà ciar”. Alla sera esprimeva la sua stanchezza dicendo “sont estenuaa” anziché il più semplice “son stracch mòrt”.
E poi i modi di dire in via di estinzione: “Savè a ment come el paternoster” per spiegare che il suo ricordare a memoria tante poesie, sue e di chissà chi. Oppure quando raccontava che la moglie aveva licenziato un garzone perché “l’èra on margniff e on pataflàn”, cioè furbastro e per di più lento. Tra i suoi prodotti caseari citava come speciale la “maschèrpa”, credo una specie di ricotta, e non ho mai saputo se c’entrasse con “quei de la Mascherpa” di una canzone milanese.
Ma mentre il suo linguaggio era ricco di termini dialettali ricercati, le sue poesie erano più semplici. Parlavano di sentimenti chiari e di paesaggi dolci. Correvano sulle corde del bel tempo andato e della nostalgia delle cose perdute. Parlavano di luna e di stelle, della vita sul viale, cose forse banali che per lui non lo erano affatto. Certo, le sue poesie non avevano la profondità e la genialità che oggi troviamo, per restare nell’ambito dei poeti dialettali, in Franco Loi, dove il linguaggio si fa ricercato, musicale e intimo. Ma che il viale Belforte, quella matassa di macchine e di rumori, potesse essere oggetto di poesia aveva in sé qualcosa di meraviglioso.
L’avevano convinto mio padre e l’Aletti (l’”Angioletto”, socio e parente del Bernasconi degli elettrodomestici) a mandare le sue poesie al Primo Concorso della Famiglia Bosina. Era il 1966. Il primo posto del concorso era stato assegnato a Nino Cimasoni con la poesia “Na storia vegia da Varés”, al secondo posto Angelo Monti con “Il ternu al lott”. Ma al terzo posto, e nessuno se lo sarebbe aspettato, era stato scelta la poesia “Ul me dialètt” di Rinaldo Mangano.
Quella sera, nella cucina retrobottega del suo negozio, gli amici l’avevano festeggiato, vino e salame, con qualche insofferenza della moglie, che si era trovata tra i piedi un po’ di gente.
L’anno seguente, il 1967, stessa storia, stesso concorso: primo sempre Cimasoni con “Ol nost campanin”, seconda Amelia Albini con “Ma l’eva bel Varés 80 fa” e terzo, lì sempre sul podio, ancora Rinaldo Mangano con “U la me téra”.
Una pausa nel 1968 e poi nel 1969, altro terzo posto, dietro alla Albini e al solito Cimasoni. Mangano presenta “Ol mè patrimoni”. Quel giorno, per ritirare il premio a Villa Ponti, si era vestito a festa. Per la terza volta il sindaco Ossola gli aveva consegnato il diploma.
You must be logged in to post a comment Login