-Caro Mauro, quella volta che…
“Caro Massimo, quella volta che mi chiamò Dino Risi”.
-Regista da leggenda…
“Proprio lui. Una telefonata a sorpresa, chissà chi gli diede il mio numero”.
-Epoca e motivo?
“Fine anni Novanta. Richiesta di citare il passo d’un suo libro. Perché Risi scriveva, oltre che dirigere sul set”.
-Citarlo dove?
“Sul Corriere della Sera, pagina della cultura. A quel tempo, in alto a destra, ogni giorno compariva una breve frase d’un noto intellettuale. A scegliere l’una e l’altro erano collaboratori vari del giornale, tra i quali io”.
-Dunque si pubblicò anche la Risata…
“E fu l’incipit dell’amicizia tra lui e me. Sarebbe durata a lungo”.
-Storia da film…
“Un film l’abbiamo fatto, insieme. Ed è una bella storia”.
-Cioè?
“La storia di Rudolf Nureyev, celebre ballerino. Mia figlia Alessandra, per tre anni sua collaboratrice, decise di realizzare un documentario che lo raccontasse. Io ero il presidente della società di produzione da lei diretta. Mi chiese: qui ci vuole un regista. Le risposi: un nome l’avrei. Mi replicò: prova a contattarlo. Le dissi: subito. E oplà: chiamai Risi, ci demmo appuntamento, l’intesa nacque al volo”.
-Sicché lui firmò il documentario…
“Lui e il figlio Claudio. Lavorarono con tocco d’arte naturalmente. E con puntigliosità memorabile”.
-Titolo?
“Rudolf Nureyev alla Scala. Testimonianze, tra le altre, di Maurice Bejart, Roberto Bolle, Carla Fracci, Liliana Cosi, Milva. Proprio alla Scala, oltre che al Covent Garden di Londra, venne presentato. Due straordinarie serate”.
-Di Risi hai narrato anche in un libro…
“Narrò lui, a dire il vero. Il lavoro era intitolato ‘I film della nostra vita’, edito da Ares. Un’ottantina di personaggi del giornalismo e dello spettacolo spiegavano qual era il film che ne aveva segnato l’esistenza. Del novero fu anche Risi”.
-Che cosa prediligeva?
“Un film degli anni Venti. Perché era silenzioso. Senza sonoro”.
-Non in linea con la sua effervescenza…
“In realtà Risi, re della commedia all’italiana, conosciuto per ‘Il sorpasso’, ‘La grande guerra’, ‘I mostri’, ‘Vedo nudo’, ‘Profumo di donna’, ‘La stanza del vescovo’ eccetera ha sempre velato di malinconia le sue opere. Faceva divertire lo spettatore, ma gli lasciava un retrogusto d’amaro in bocca”.
-Realista…
“Indagatore del costume e insieme dell’animo. Un osservatore della vita, disincantato e poetico. Anche solitario e schivo”.
-Solitario, ovvero?
“Visse a lungo per conto suo nel residence Aldovrandi di Roma, quartiere Parioli. Una sera, rientrando a casa, disse alla moglie, seduta di fronte a lui nel salotto: desidero per un po’ di tempo vivere senza la compagnia di nessuno. Lei si alzò, scomparve per un quarto d’ora, poi gli si ripresentò davanti consegnandogli la sua valigia”.
-La valigia di lui…
“Che dovette andarsene da casa prima di quanto pensasse. Non sapendo dove trovare alloggio, capitò all’Aldovrandi. Ci avrebbe abitato per una trentina d’anni”.
-Dicevi anche schivo…
“Rifiutò il cavalierato di Gran Croce, di cui Cossiga presidente della Repubblica voleva insignirlo. Non darlo a me, gli suggerì. Dallo ad Alberto, che ci tiene. Alberto era Sordi. Che difatti diventò Cavaliere di Gran Croce, menandone orgoglioso vanto. A proposito di schivo…”
-A proposito…
“Dino non sopportava d’essere intervistato. Una volta con un giornalista della Rai prese la scusa d’una infermità: mi sono rotto la gamba, non posso venire nei vostri studi. Qualche giorno dopo gli capitò d’incrociare per strada il tizio. Faticò a giustificarsi”.
-Quale il suo miglior film?
“Lascio rispondere a Massimo Bertarelli, uno dei maggiori critici cinematografici italiani. Indicò ‘Il giovedì’, protagonista Walter Chiari. L’Italia lo conosceva come showman da varietà e barzellettiere televisivo. Risi lo consacrò formidabile attore”.
-Un titolo che gli rubiamo, per l’Italia d’oggi?
“È di quarantanove anni fa: ‘A porte chiuse’. Ce la stiamo giocando così, la nostra vita residuale”.
-Comunque allegria…
“Allegria sempre. Poveri ma belli, come Dino ci ha insegnato”.
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