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Stili di Vita

BOLLA D’IRREALTÀ

VALERIO CRUGNOLA - 17/04/2020

guardareL’esercizio della riflessione su di sé, che sposa il pensiero all’esperienza, va messo alla prova in circostanze rivelatrici. Quel che ci raccontiamo come inclinazioni non esplorate, aspirazioni da realizzare, esami da superare, desideri inespressi o, all’opposto, abitudini consolidate e risorse acquisite una volta per tutte, potrebbero, al momento decisivo, mettere a nudo aspetti di noi inattesi o ignoti e mostrarci le fragilità di cui siamo costituiti.

Scrivo a circa 55 giorni dall’inizio dell’emergenza in Lombardia. Prove straordinarie come questa valgono come strumento di misura delle nostre capacità di sopravvivere bene, in una reclusione assoluta o condivisa, grazie alle proprie doti di resistenza psichica, di resilienza, di adattabilità, o di sopravvivere molto meno bene cadendo in uno stato di sofferenza o, come nel mio caso, di smarrimento. Qui dirò del “mio caso”, perché posso parlare solo per me. Queste esperienze sono uniche sia per la loro straordinarietà, sia per l’impossibilità di sovrapporle completamente a quelle di qualsiasi altro.

Nei primi giorni ho notato l’alterarsi dei bioritmi nella veglia, nel sonno, nei pasti. Questa alterazione non ha generato un nuovo ordine, ma un totale disordine. La mancanza di una pressione esterna e di uno sguardo continuativo di altri mi ha gettato in uno stato di anarchia permanente. Ho perso gli assetti gravitazionali che tessevano un filo tra un giorno e l’altro. La barra del timone ha smesso di funzionare anche in assenza di vento e con lievi correnti favorevoli.

Mi è venuto normale, in queste condizioni, cercare un soccorso nello smartphone, nella messaggistica, nelle conversazioni di gruppo, nelle videochiamate o in passatempi come You Tube. Ma dopo una fase di bulimia relazionale i livelli di saturazione sono presto diventati insopportabili. Questi soccorsi sono o invasivi o estenuanti, e soprattutto generano tossicodipendenza, connessioni compulsive, invasività mia nei confronti di altri e invasività di altri nei miei confronti. Ho avuto, e ho tuttora, la sensazione di essere ripiombato in un mondo falsificato simile a quello dei social, dai quali mi sono definitivamente sottratto: un mondo dove ci si parla addosso, si dicono sempre le stesse cose, ci si ostenta in una dimensione falsamente relazionale, si è futili sentendosi utili, si crede di poter dire di tutto su tutto, ci si illude di discutere e dialogare ma è solo un conferire che quasi sempre non ci si schioda dal già pensato. Quando ho scoperto che amici tra i più cari trascorrevano l’intera giornata stando appollaiati su whatsapp, mi sono specchiato in loro e ho reagito con un salvifico moto di nausea. In generale, la mia afflizione più grande è nella sensazione di vivere una vita superflua, sempre più vegetativa, che dissipa il poco tempo buono ancora a disposizione. Il virus è un ladro di tempo: a me, pensionato attivo, non ne aggiunge, me lo toglie tutto, o quasi.

Lo smarrimento è accentuato dalla “perdita di mondo”: non solo gli spazi, le cose da fare, il moto, ma altresì le percezioni che rallegrano la vita. Andando a piedi a fare la spesa alla Coop ho scoperto di non avere goduto le fioriture degli alberi e le altre poche bellezze che la natura urbana ormai ci offre. E non ha senso George de la Tour a Milano se poi non lo puoi vedere.

Telefono molto, contrariamente al mio solito, o mando messaggi per “fare l’appello”, per rassicurarmi che gli amici più cari stiano bene e per scambiare qualche superficiale confidenza. Di “me” sopravvive il senso dell’umorismo, il piacere di una risata condivisa: è il miglior lenimento per la sindrome ansiogena e depressiva della reclusione e dell’inattività.

Fin dall’inizio ho poi notato il mio passaggio dall’uomo ipercinetico che sono stato ad una condizione di limitatissima mobilità in uno spazio contratto. Da anni ho dovuto prendere atto della riduzione delle mie capacità motorie, ma percepisco i miei comportamenti da recluso come una specie di collasso, come una transizione verso un declino intellettuale e uno stato di prigionia nel mio corpo. Da uomo laborioso e attivo mi ritrovo a sentirmi pigro, indolente, svogliato: il mio motto è “Fai oggi quello che potresti fare domani”. Faccio naufragio nel tempo indefinito, in attesa di un’esistenza di cui non sarò più arbitro e padrone. A lunghi momenti di torpore si alternano brevi momenti di risveglio. Calano le mie capacità di concentrazione, attenzione e apprendimento. Non riesco a leggere, in cambio ascolto: ascolto i giardini non più silenti, e molta musica classica, anche se un po’ mi fa da tappezzeria per portare dentro casa dei suoni spentisi di colpo nel mondo esterno, e un po’ è un ripasso dominato dall’oscuro presentimento che possa trattarsi dell’ultima volta. È sempre la musica, questa volta rock e africana, a scandire le mie rare attività ginniche: ballo da solo, io che sono un pezzo di legno scoordinato. Parlo anche da solo e guardo dalla finestra come un umarell: annunci inequivocabili del declino neuronale incombente.

Dell’uomo curato non ho più traccia. Fin dal principio mi sono chiesto: “Quanto durerà?”. Di qui la decisione bizzarra di misurare la durata dell’emergenza con la lunghezza della barba. Ho superato i due centimetri; da pungente la barba è diventata soffice ed è piacevole arricciarla tra le dita o accarezzarla in vario modo, ora per sollevarla, ora per appiattirla. Per evitare di sentirmi trasandato e un po’ abbrutito, non mi guardo mai allo specchio. Vivo in pigiama o con abbigliamenti improbabili. L’autodisciplina vacilla.

Nelle ultime settimane ho notato la perdita della mia residua corporeità, come se questa fosse la protesi inutile di un pensiero discontinuo e di una volontà labile. I miei campi percettivi si sono ridotti. Ancor più grave è la perdita della corporeità degli altri. Le volte che esco per la spesa, colgo nel distanziamento sociale un aumento della diffidenza verso gli altri. Privati della leggibilità delle espressioni, lo sguardo altrui perde di consistenza e ci si evita.

Ho acquisito un senso (un tempo avremmo detto “kafkiano”) di vivere in una bolla di irrealtà che apre uno stato metamorfico sconosciuto e imprevedibile.

Ho difficoltà nel gestire la mia emotività, a incanalarla, a trasformarla in confidenze. Sono facile alla commozione ma mi accade di alternare i buoni sentimenti ad altri di intolleranza, di nausea e di fastidio. Ammiro la sobrietà dei medici, degli esperti, la compostezza e la trasparenza assoluta delle conferenze stampa giornaliere della Protezione Civile. Provo invece repulsione per lo sciacallaggio politico, per chi proprio non riesce a cambiare registro. Mi infastidiscono la retorica del “Ce la faremo”, l’”Andrà tutto bene”, il tronfio e abusato “Vincerò” di Pavarotti, i luoghi comuni ottimistici sull’italianità o quelli speculari in senso dispregiativo sull’italiotità, l’evocazione impropria della guerra, gli eccesso di autoesortazione, la ridondanza delle parole, l’abuso mediatico di bambini imboccati e inverosimili, la furbesca pubblicità dedicata (una tirata sull’Italia “che non molla mai” si rivela lo spot di una pasta che non scuoce), la perenne ostentazione di alcuni in un momento sconveniente. Le stonature di Bocelli, cartavetrata passata sui timpani, mi nauseano. La quotidianità sono questi alti e bassi, scanditi dall’onnipresenza della televisione, un apparecchio in passato sempre spento e ignorato se non per eventi eccezionali. Mi mancano il ciclismo, i gol di Ronaldo e le rivincite di Gattuso. Infine, provo sgomento quando lo sguardo incrocia quello di chi, girando senza mascherina, mette in pericolo la sicurezza altrui ostentando la propria impunibilità.

Ma il vero problema è la condizione di ansia prolungata: per gli altri e per l’incertezza del futuro, per le minacce che incombono sul mondo intero, e non solo per il coronavirus. Temo anche per il mio futuro personale: come potrei cavarmela con una crisi economica che sbocca in una inflazione da cui non sono protetto? Mi preoccupa molto meno la morte. Trent’anni di “carriera” come cardiopatico mi hanno assuefatto al pericolo della fine, ma non sono pronto per lo strazio di una fine solitaria, senza essere circondato da affetti e amicizie.

La mia sola forza consiste nell’attestare a me stesso quanto resta della mia autonomia e della mia tenacia. Il “mio” sindaco, che in silenzio lavora 18 ore al giorno, si propone per portarmi a casa la spesa. Gli obietto che ha di meglio da fare e mi risponde che tanto deve già farla per i suoi genitori. Questo gesto di premura e di affetto mi intenerisce, ma non posso cedere del tutto. È il solo modo che ho per evitare che il virus che ho tenuto lontano dai polmoni e dalle mura di casa si insinui nella mente come un disagio oscuro e ingovernabile.

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