La pandemia globale in atto riapre il cruciale problema filosofico della decisione in uno stato di eccezione o di emergenza. Il tema prese le mosse da Machiavelli e Hobbes, fu sviluppato da Juan Maria Donoso Cortés, un reazionario spagnolo che vide nella modernità una minaccia perenne e accusò la democrazia “discutadora” di paralizzare la facoltà di decidere, e culminò con Carl Schmitt, un teorico del diritto che si propose come voce giuridica del nazismo, ma che ha proiettato la sua ombra su tutti i regimi totalitari o autoritari del ‘900. Un pensiero, il suo, assolutamente inattuale, ma necessario come punto di partenza.
Eccezione ed emergenza sono due concetti distinti. La prima è un passaggio critico unico e irripetibile che genera una fase di instaurazione fondativa in radicale discontinuità con il passato, una transizione a nuove forme di autorità e a nuove conseguenti legittimazioni della decisione. Donoso Cortés voleva ripristinare la libertà dell’uomo di scegliere tra l’obbedienza alla legge divina o la volizione del male. Schmitt accantona la teologia politica cattolica e ne costruisce una laica, anzi atea. Ogni campo dell’agire umano si costruisce per lui su una specifica polarità di opposti: bello e brutto, utile e dannoso, giusto e ingiusto, amico e nemico. La scelta tra amico e nemico è l’oggetto della decisione propria della sfera politica. Una condizione istituzionale e interstatuale dove i conflitti sono regolati e smorzati, svuota la politica e non coglie il valore olistico della decisione. Questo valore si manifesta appieno nello stato di eccezione. È la decisione che fonda la legge. Il nomos rivela l’autonomia creatrice e insieme regolatrice della sovranità politica. Il dispiegarsi della potenza – che è anche forza – genera e solidifica il potere.
L’irresistibilità dell’autorità suggellata dal monopolio decisionale sottomette alla legge un corpo sociale altrimenti votato alla disgregazione. La concessione o la restrizione della libertà compete a chi detiene il potere di decidere. Non sussistono diritti in sé cui le istituzioni debbano sottoporsi. Sussiste solo il diritto originario di fissarli, variarli, revocarli. Lo stato di guerra, abolito all’interno, persiste all’esterno. La belligeranza esterna e la custodia della coesione interna sono la ragion d’essere della politica. La statolatria politica di Schmitt vuole portare l’ordine civile fuori dallo stato di eccezione ma di fatto lo rende una condizione perenne. La libertà si declina come una variante della coesione interna: più è alta l’osservanza della legge e più qualche libertà si può concedere; ma se la coesione è bassa lì interviene la forza limitatrice del decisore. In conclusione: sino ad ora lo stato di eccezione ha generato esiti autoritari, statolatrici, liberticidi.
L’emergenza denota invece un punto di caduta, una situazione di rischio così grave e straordinario da imporre scelte drastiche, non necessariamente durature, intese come unica condizione per ripristinare la normalità e le regole che ordinariamente disciplinano le relazioni tra lo stato e i cittadini, tra le diverse istituzioni e tra lo stato e gli attori economici, sociali e culturali. È la situazione che stiamo vivendo: preserva lo stato democratico, non víola il dettato costituzionale ma restringe temporaneamente alcuni diritti. Non è un atto fondativo, ma sollecita un cambiamento nell’agire politico e grandi interventi di riforma per superare e prevenire i pericoli. Nulla, dopo l’emergenza, sarà come prima.
Storicamente il confine tra eccezione ed emergenza è stato più labile, per l’ambigua relazione tra autorità e decisione. Più si estende l’una e più si estende l’altra; e viceversa. Il confine è dipeso dalla stabilità dei sistemi politici, istituzionali e geopolitici. Nel primo dopoguerra il tracollo di stati e imperi, il peso delle economie di guerra, gli appetiti nazionalistici, le eccessive punizioni dei vinti e le minacce rivoluzionarie trasformarono un complesso di emergenze in un campo minato di stati di eccezione che non si stabilizzarono mai. Il trentennio 1914-1945 fu il più orrendo della storia umana. Nel secondo dopoguerra l’emergenza della ricostruzione economica fu accompagnata in Europa occidentale, nel Nord America e nel Giappone da una saggia politica di integrazione capace di favorire tutti e di estendere insieme democrazia e protezioni sociali. Il capitalismo domato e regolato dal welfare, dai diritti dei lavoratori e dai mutui accordi internazionali entrò nella “età dell’oro”. Iniziato sottotraccia nei ’70 e decollato nei ‘90, l’accelerarsi della globalizzazione ha dispensato beni e rivoluzioni tecnologiche, ma ha prodotto diseguaglianze e distrutto l’ecosistema. Dal 2007 il motore è inceppato. Ora le emergenze sono plurime e tutte globali.
Nessuno è in grado di affrontarle da solo. Siamo tutti a un bivio e resta poco tempo. Sovranismo e populismo non sono una risposta: sono il baratro. Il tempo del moderatismo è finito per sempre. È il momento di una radicalità condivisa.
Non necessariamente il rapporto tra autorità e decisione ha risvolti negativi. Anzi, viviamo in un mondo dove sistemi poliarchici più grandi – le relazioni internazionali, gli scambi economici, ecc. – contengono e subordinano a sé sistemi poliarchici più limitati (gli stati nazionali e i loro organi decentrati). La poliarchia globale e locale limita e bilancia, diffonde i poteri con controlli intrecciati e rispetta le legittime autonomie deliberative, a cominciare dalla libertà di informazione. Esistono poliarchie di primo grado (gli stati nazionali) e di secondo grado (gli organismi sovranazionali come la UE, gli organismi internazionali come la OMS).
Le poliarchie di primo grado hanno accettato un sistema globale di relazioni economiche e di equilibri geopolitici e militari, e vi si sono conformate, ma mantengono un grado di sovranità eccessivo nelle condizioni di emergenza globali, di fronte alle quali tutti siamo impreparati: lo sono gli stati nazionali, peggio se posseduti dal demone localista e dagli egoismi patriottardi, e lo sono gli organi sovranazionali, perché le poliarchie di secondo grado dispongono di molti poteri regolativi concordati ma non sono minimamente attrezzate per affrontare, prevenire e riparare le emergenze globali, a partire dall’emergenza che contiene tutte le altre, la tragedia ambientale che incombe sul pianeta.
Le poliarchie di secondo grado, non elettive ma legittimate, devono imporsi alle poliarchie elettive (ma non necessariamente democratiche, purtroppo), con normative ineludibili, leve economiche più potenti e concordate e sanzioni ferree, simili a quelle piegarono l’apartheid in Sudafrica. Nessuna minoranza nel mondo ma maggioritaria in un solo paese può tenere in scacco il futuro del pianeta.
Facciamola finita con Davos e i G8. L’ONU non ha mai funzionato. Se scompare è meglio. Ma alcune sue agenzie potrebbero divenire indipendenti, con poteri decisionali, normativi e di indirizzo (sanità, alimentazione, cultura, migrazioni). Altre organizzazioni vanno riconvertite, anche in senso etico e civile (il FMI). Il WTO o viene rifondato in chiave antiliberista o sparisca. Altre agenzie dovrebbero nascere per il clima, l’ambiente, il disarmo, la formazione culturale e scientifica, i rischi tecnologici, il contrasto ai Big Data e al “capitalismo della sorveglianza”. Il sacrificio di sovranità sarebbe apparente. La delega indiretta, condivisa come ordinamento, non lede né libertà né diritti né rappresentanza. Abbiamo urgente bisogno di nuovi tavoli internazionali e di accordi cogenti. Chi prova a ricattare o a tardare, andrà isolato. Solo a queste condizioni potremo avere le sicurezze e le protezioni che nascono dai diritti, dall’equità, dal sapere diffuso, dalle tutele sanitarie universalistiche, dal trasporto pubblico, dal rispetto delle regole, dalle tutele e dalle ricostruzioni ambientali, dall’intraprendenza, dalla laboriosità e dallo spirito di servizio.
Queste scelte sarebbero imposte dalla ragione. L’illuminismo non ha mai abitato la politica. Non basta essere tornati a fidarci delle autorità scientifiche. Occorre il contributo di centinaia di milioni di attivisti nel mondo. Se non fosse stato una “americanata pazzesca”, il nome di questo movimento globale ci sarebbe (c’è un emoticon con l’occhiolino): il Voltaire Salvation Army! Dacché di questo si tratta.
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