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Attualità

SERENI E CONNESSI

CESARE CHIERICATI - 10/04/2020

Striscione a Scampia

Striscione a Scampia

Il coronavirus ci ha regalato da quasi due mesi a questa parte un’informazione in cui dominano incontrastate – e non potrebbe essere diversamente – le notizie relative alle tragedie umane e ai danni ingentissimi che la pandemia sta abbattendo sull’intero pianeta e sul nostro italico frammento. Tg pubblici e privati, spazi di approfondimento, giornali radio, rubriche varie – per non parlare dei social – appaiono tutti sintonizzati sul virus, come se il resto della realtà di cui normalmente si parla e, spesso, straparla sia stata cancellato con un colpo di spugna.

Non che questa overdose di informazione abbia tanto chiarito cosa ha funzionato di più e cosa ha funzionato di meno nella dolorosa circostanza. Neppure la pletorica schiera di esperti, scovati dai media anche nei più reconditi ospedali e nelle più sconosciute università, è riuscita finora a decifrare con esattezza i meccanismi mutevoli che paiono regolare la pandemia. L’unica regola certa è stare tappati in casa, il cosiddetto “distanziamento sociale”, ovvero una sorta di confino di medicina che potrebbe protrarsi per mesi uccidendo l’economia e sterilizzando pericolosamente i rapporti sociali. Una prospettiva buia con cui tutti dobbiamo fare i conti.

Non va comunque dimenticato che anche il coronavirus colpisce in maniera asimmetrica nel senso che un conto è trascorrere i domiciliari in una casa spaziosa e nel verde con un ragionevole rapporto tra il numero delle persone presenti e i metri quadrati disponibili; altra cosa è scontarli in spazi limitati e densamente abitati. Per questa ragione risultano piuttosto irritanti i telegiornali a lieto fine, quelli che dopo aver snocciolato i fatti della giornata, piazzano in coda il servizio edificante.

È accaduto un giorno della scorsa settimana, in uno dei Tg Rai della sera. Quasi in coda è andato in onda un servizio girato all’interno delle cosiddette “Vele” di Scampia, non lontano dall’aeroporto di Napoli. Si tratta di edifici in via demolizione (2 o 3 sono già stati abbattuti) costruiti tra il 1978 e l’’84, giganteschi e desolati, specchio della monumentalizzazione megalomane di un intervento di edilizia popolare che ha trasferito dal ventre storico della città – quartieri spagnoli- cinquemila persone nelle “Vele” illudendosi che il trapianto potesse essere automatico e indolore. Nel giro di poco tempo si trasformarono in una bomba sociale, in un concentrato di pratiche criminali di ogni genere: spaccio di droghe, scommesse clandestine, combattimenti di cani, estorsioni, vandalismi. Sono sorte negli anni anche coraggiose iniziative di alternativa sociale, di contrasto al degrado, di promozione educativa che hanno lenito in parte una situazione comunque sempre prossima al limite di rottura.

Giusto dunque inviare una troupe per verificare come stessero funzionando in quei disperati edifici il “tutti a casa” e il “distaccamento sociale”. Non funzionavano affatto dove la promiscuità abitativa è la regola come del resto in altre periferie assurde e degradate del nostro paese. Bene, su quelle immagini di realtà viva e dolente bisognava chiudere quell’edizione del Tg. Invece, con un altro servizio riparatore si è andati oltre mostrando le immagini di una famiglia tipica da “Mulino bianco”: la mamma faceva il pane, il marito lavorava in smart working, il figlio maggiore studiava in remoto con i propri insegnanti, la figlia confrontava, in videochiamata con un’amica, i compiti appena fatti, il gatto dormiva secondo copione. Tutti sereni e connessi nel tempo sospeso del coronavirus. Un filmato che rimandava a quelli dell’Istituto Luce ai tempi (1937 e seguenti) del MinCulPop, Ministero per la Cultura Popolare.

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