Per rifondare (sperare di rifondare) la Lega, il fondatore non ha avuto che una scelta: dimettersi. Una disperata scelta di sentimento e di realismo. Di sentimento, perché Umberto Bossi vuol più bene alla sua creatura politica che a se stesso, e per lei farebbe (ha fatto) di tutto. Anche chiudere un’avventura epocale e leggendaria. Una scelta di realismo perché, di fronte ad accuse gravi che toccano la cerchia familiare, gli argomenti di difesa privata si mischiano con le ragioni di tutela del partito. E se la famiglia per assurdo poteva sostenere una tale situazione, il partito per sopravvivere no.
Il problema non è se Bossi sapesse o non sapesse. Autorizzasse o ignorasse. Il problema, come si dice dei club calcistici, è la responsabilità oggettiva del segretario (figuriamoci del segretario-padrone) d’un partito. Responsabilità concreta, riconosciuta e praticata. Se egli è al corrente di quanto accade, e lascia che accada quel che non dovrebbe, tirarsi da parte mentre la magistratura indaga è il meno che militanti ed elettori (opinione pubblica e Paese) pretendano; se invece è all’oscuro di tutto, e l’hanno fregato a ripetizione con speculativo cinismo, il motivo per indurlo al passo indietro appare idem convincente. Un leader cui sfugga il controllo del partito è un leader delegittimato. Colpevole, purtroppo per lui e per chi lo appoggia e vota, d’essersi fatto tradire.
Si argomenta che la Lega è Bossi, e senza Bossi si dissolverà. Sembrava un giudizio fondato negli anni successivi alle origini, ma non lo sembra più da un pezzo. La Lega s’è evoluta (involuta) in un’altra Lega, ma pur sempre Lega, a mano a mano che scoloriva lo smalto del capo, sfregiato dalla malattia. E tra divisioni sopite, complicità ringhianti, ipocrisie dietro le quinte e di facciata, questa Lega ha tenuto. A reggere è stata l’anima territoriale che ne innerva il consenso, resistendo a deberlusconizzazioni e riberlusconizzazioni, imbarazzati forfait nella nomenklatura, fallimenti del riformismo governativo. Nuovi ingressi nel sostegno elettorale han compensato le uscite, garantendo la sopravvivenza dell’archetipo pur se declinato in aggiornati restyling imposti dal mutare del blocco sociale di riferimento.
Adesso il rischio è che quest’anima territoriale non regga più. Che il suo tessuto di convenienze di potere interclassista, più che di speranze d’una palingenesi padano-nazionale, si sfilacci. Che non ci sia ago capace del rammendo acconcio. Che altri sarti di altri partiti intreccino un’imprevista e favorevole trama, profittando del tramontare della moda leghista. Evenienze che hanno alfine risvegliato l’antico fiuto del Senatùr, indicandogli l’unica strada da percorrere. Per il bene della residuale Lega, dunque per il bene residuale suo.
Il Bossi dimissionato dal familismo amorale tira giù con mestizia il sipario. Raccoglie lo sgomento di chi l’aveva mitizzato. Ma incassa la pietas, perché costretto a esibire l’imbarazzo, il rossore, la vergogna. Il ricorso in extremis alla dignità etica l’autorizza a non uscire formalmente di scena: vi si colloca sullo sfondo, sfumato come il carisma perduto, aspettando il giudizio della storia. Che dovrà esprimere, quando sarà venuto il tempo adatto, la sentenza: un grande bluff che si scoprì a sorpresa grand’uomo, o un grand’uomo che scoprì con sorpresa un grande bluff?
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