Vorrei ragionare sulla triste quotidianità che sto vivendo, ma nel groviglio dei pensieri non riesco a fissare idee, riflessioni, ispirazioni. Vorrei scrivere, annotare, prendere pretesto dalla città deserta per descrivere una città morta, tradurre in parole gli avvenimenti, ma non riesco a dipanare il filo della memoria e a pattuire una tregua tra le pulsioni del cuore e la tastiera del mio computer, su cui sono costretto a compiere gesti che l’abitudine ha levigata.
Sotto la taciturna esitazione del mattino di marzo, vorrei piuttosto conquistare le nuove luci della primavera e i suoi doni ed invece sono qui a sfogliare all’indietro i ricordi della storia di un mese. C’è la storia degli uomini e una storia secondo Dio. Vorrei raccontare la mia storia contenuta nel volere d’amore di un Dio che veglia sui miei malanni e accettarli così come vengono.
Come ogni domenica, avevo telefonato a mia sorella, fiera dei suoi 97 anni, ci eravamo scambiati poche parole, ma quel suo “Ciao, Edoardo” era insolito, più marcato. L’indomani sarebbe caduta, si sarebbe fratturata i due femori. Soccorsa dall’unico nipote, sarebbe stata trasportata all’ospedale di Piacenza, operata d’urgenza e avrebbe resa la sua anima a Dio, ricongiungendosi al marito, all’unico figlio e all’ altro giovane nipote. Nonostante le misure di contenimento, riesco a raggiungere l’ospedale che trovo scompigliato, giusto in tempo per salutare la sorella che, da infante, mi fece da baby-sitter, partecipare all’ultima messa esequiale celebrata per un defunto ed accompagnarla al piccolo cimitero di collina, accolta dal suono festoso delle campane che l’anziano prete ha voluto suonare. Nei successivi cinque giorni, avrei ricevuto altre tre telefonate che mi annunciavano la morte di altrettanti cari amici di una vita.
Ho pensato in questi giorni alle famiglie che, avvertite da un medico, hanno dovuto accettare la morte di un loro caro e non hanno potuto nemmeno elaborare un lutto che, se non li riporta al mistero, anche penoso, delle loro angosce, diventa una notte ancor più fosca. In quelle ore buie chiedono a Dio le ragioni del loro penare e come Giobbe si pongono domande alle quali non sempre Dio sa rispondere in modo conveniente. La morte l’abbiamo dentro e ci rosicchia, a poco a poco, come un tarlo nascosto. Tutto ci appare triste e faticoso e il rinascere lieto della terra in questa primavera ci sembra un’offesa alla nostra voglia di vivere. Il dolore per la perdita di un caro porta a chi resta a cercare un appiglio senza il quale la vita sarebbe un peso: alcuni si accusano di aver sbagliato tutto, ad altri subentra il senso di colpa che ti impone di chiedere scusa, molti si pentono di non aver amato abbastanza.
Ho pensato in questi giorni agli ammalati, ai moribondi a cui un nodo serra loro la gola, spalancano gli occhi, chiedono aiuto e vicino trovano un medico che tiene loro con delicatezza il polso accompagnandolo con il sorriso del samaritano invece che con il ghigno del mestierante. Ho pensato agli infermieri che esercitano il loro sacerdozio laicale impartendo una benedizione o recitando una preghiera per accompagnare il morente alla misericordia del Signore. Penso all’abnegazione di tanti volontari, agli uomini delle volanti, ai sindaci sommersi da ordini e contrordini, alle badanti, ai padri che non avranno lavoro, ai piccoli costretti a restare chiusi in casa, agli anziani, ai detenuti, ai senza dimora, alle cassiere dei supermercati…
E io sono qui a lamentarmi della stanchezza e della noia, di questa polvere che si è posata sulle scarpe. “Ti sei lavato la mani?” – mi chiede insistentemente mia moglie. Ma io vorrei lavarmi dalla nausea che non mi permette di riprendere alacremente la vita di un tempo, dalle incrostazioni inutili che si sono depositate nell’animo, dai discorsi contorti e inutili che mi propinano radio, TV e giornali, da quelli troppo prudenti dei virologi. Vorrei detergere i pericoli di questo tempo per continuare lo stupendo mestiere della vita.
E io sono qui solo. Divento impaziente con me stesso e aggressivo con gli altri. Sì, telefono, scrivo, ma patisco la mancanza della ricchezza datami dalle relazioni umane, dei rapporti senza secondi scopi, della convivialità con i miei figli ed amici durante la quale non chiedo nulla, ma attorno ad una fetta di pane e salame discorriamo non facendo discorsi banali e poveri, ma quelli ricchissimi che parlano della vita che scorre. Vivere significa stare con l’altro e il drago ci ha tolto anche questo dono.
E io sono qui a vivere la paura della paura. Vorrei avere risposte logiche e razionali a questa mia domanda di conoscenza sul senso del male, ma forse ho disimparato a cogliere le ragioni dell’intelletto, ma non quelle del cuore e della vita, e ho scoperto la debolezza del potere umano,
Sono andato anch’io in questi giorni a rileggermi “La peste” di Camus e ho trovato casualmente le chiose che mio figlio, allora adolescente, aveva marcato in francese:” Camus è ateo. Che senso ha la vita se non c’è niente dopo la vita? È l’uomo che si crede immortale! Il prefetto aveva preso misure che non erano draconiane, ma solo preventive: attenzione all’alimentazione cruda, estrema igiene, isolamento dei malati, disinfezione delle camere, sorveglianza sanitaria”….Il commento adolescenziale termina qui. Apro il libro e trovo sottolineata questa frase:” Bisognava solamente cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, alla cieca, e cercare di fare del bene”. Il rischio attuale è che di umano mi sia rimasta addosso solo la stanchezza e non la voglia di resistere, di ricominciare, di progettare.
L’uomo vestito di bianco si è inerpicato da solo, claudicante, sotto la pioggia battente, sui gradini che portano al centro della cristianità: nelle sue parole, e più ancora nel profondo silenzio, rotto solo dalle sirene delle autoambulanze, ha chiesto a Dio nascosto sotto il Pane Eucaristico la sua benedizione su Roma e sul pianeta globale. È questa la speranza del credente: che Dio dissolva ogni malanno e che tutto faccia rifiorire.
Non mi resta che levare la mia richiesta al Signore:” Padre, difendimi dal male, liberami dalla stanchezza della vita, dai pericoli di questi giorni. Ridammi il dono della pazienza, come Tu hai pazienza verso di me. Concedimi la ricchezza delle relazioni umane. Concedimi di non disperare, ma di avere fiducia in te, che forse in questo momento dormi sulla barca, ma non ci lasci in mano ai marosi perché vegli sui nostri malanni: mutali in consenso per il bene che non vediamo e non facciamo. Accettali come verranno”.
Guardo fuori dalla finestra. Il mio amico merlo ha già raggiunto la magnolia e tra la lucentezza del fogliame intravvedo che perlustra gli imminenti itinerari della primavera.
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