Al Sacro Monte avevamo abitato per molti mesi, d’estate. Non so perché sia stata fatta questa scelta. Era il 1949, anno più anno meno. Abitando a Belforte l’idea che si facesse villeggiatura al Sacro Monte oggi può sembrare incomprensibile. Eppure quei quattrocento metri di differenza in altezza rappresentavano, nelle intenzioni dei miei, un regalo alla nostra libertà, alla possibilità di girare per boschi dalla mattina alla sera. Era un modo per non costringerci tra quattro mura, prima che iniziassero le elementari. E soprattutto, diceva mio padre, era bello “guardare le cose dall’alto, che ogni giorno sono diverse”, soprattutto nei giorni di vento.
Per la rubrica “Quartieri”, su RMFonline, l’impossibilità di uscire di casa in questi tempi difficili mi ha costretto ad un viaggio nella memoria, la mia, intendo. E di quelle estati al Sacro Monte, a cavallo dei primi anni delle elementari, conservo un ricordo sfuocato nelle immagini ma acuto nei piccoli dettagli, un ricordo di sensazioni più che di fatti. Soprattutto ho la certezza che quelli fossero anni felici.
Mi era capitato di scriverne in “Pagine di Territorio”, libro edito da Claudio Benzoni nel 2013, una raccolta di racconti su Varese con testi di una ventina di autori. Da questo ho preso spunto.
Avevamo preso in affitto una casa, un paio di locali alla fine del viale delle Cappelle, con uno spazio ampio triangolare che dava sull’esterno, sotto il terrazzo del piano superiore, con un soffitto dipinto a cielo. Da qui si vedevano l’ultima cappella, il Ristorante Montorfano e le case più a monte della Rasa. Uscendo a sinistra, il Mosè “con le corna” e la fila di carretti allestiti a negozio, dove si vendevano cartoline, rosari, madonne bianche e nere, miele, girandole e cose del genere. Da casa nostra passava Lodovico Pogliaghi, lo scultore
autore delle porte del Duomo di Milano. Bastone e cappello a larghe falde, minuto e cordiale, avrà avuto cent’anni. Mia madre lo chiamava “Maestro”. Un giorno, mesi prima di morire nel giugno del 1950, ci aveva regalato una “prova d’autore” di una sua scultura in cemento, un angelo. Mia madre raccontava che mio fratello era stato il suo modello. Non credo fosse vero: ma io mi vantavo dicendo che mio fratello era un angelo.
La casa di fianco era quella degli Zamberletti, il loro albergo il Camponovo. Era il 1950. Era da poco morto, in maggio, il loro figlio minore, Domenichino, fratello di Giuseppe Zamberletti, il futuro parlamentare democristiano e “padre” della Protezione Civile. Non lo ricordo. Ma so che Domenichino lo si diceva “santo” da subito. Morto per una forma fulminante di leucemia, allora incurabile, era stato presto oggetto di devozione popolare, per la sua sofferenza vissuta “con tratti mistici”, come ebbe a scrivere Michele Aramini nel sul libro sul giovane varesino.
Mio padre aveva un negozio in centro a Varese. La sera prendeva l’ultimo tram e l’ultima funicolare e ci raggiungeva al Sacro Monte. Con mio fratello all’ora giusta scendevo da via Salvatore Bianchi, con l’emozione della corsa sulla curva a gomito con via Sommaruga, per fermarci all’arrivo della funicolare, nascosti dietro il muretto del Ristorante Colonne. Mio padre usciva, consegnava il biglietto e fingeva di non vederci. Lo seguivamo a giusta distanza lungo la strada del Borducan oppure se la sera era calda lungo la via Fincarà.
Mio padre non si voltava mai. Si fermava ogni tanto incuriosito da un sasso, da una crepa nel muro. O anche per niente. Era il suo colpo a sorpresa, nella recita giornaliera. Anche noi bambini facevamo finta di non dare importanza ai suoi gesti. Era un gioco di emozioni, piacevole perché atteso e prevedibile. Arrivati al Camponovo raggiungevamo nostro padre di corsa. Gli prendevano la mano e la stringevamo forte. Mio fratello la sinistra, per abitudine.
Tutti salutavano mio padre, al Sacro Monte. Conosceva tutti. Non era un uomo di discorsi. E non sapeva parlare con noi bambini. Ma aveva un’aria serena e tutti lo ritenevano una persona per bene.
Mia madre aspettava per la cena, insieme a una zia che viveva con noi. L’attesa di quell’uomo che tornava alla sera la rendeva viva. Non c’era gioia più grande che vedere tornare i ragazzi e quell’uomo. Non era una donna di espansivi affetti. Ma sapeva ogni dettaglio di quell’uomo. Capiva se il lavoro aveva dato preoccupazioni, se c’era stata tanta o poca gente in negozio, se aveva incontrato amici e bevuto un bianco prima della funicolare, quando aveva gli occhi umidi.
Si erano sposati proprio al Sacro Monte, che c’era già la guerra. L’inizio era stato movimentato. Al momento dello scambio degli anelli, mio padre si era accorto di averli dimenticati a casa a Varese. Una corsa con la sua Balilla fino a Belforte e il ritorno di corsa alla chiesa. Mia madre era nervosa, raccontava sempre. E anche l’arciprete aveva mostrato segni di irritazione: aveva poi fatto tutto di corsa, senza neppure due parole di circostanza.
Negli anni in cui trascorrevo l’estate al Sacro Monte, come raccontavo all’inizio, le passeggiate giornaliere con la zia che viveva con noi avevano alcune tappe fisse. Al lavatorio sotto il Borducan del Bregonzio: ci si fermava un attimo a cercare la scultura del Caravati. Il Caravati Edoardo, intendo, quello scalpellino di Luvinate, geniale e strano, che lavorava alla costruzione del Grand Hotel e che aveva riempito il Campo dei Fiori di sassi scolpiti durante le pause per il pranzo. Si sapeva che c’era quella pietra scolpita dal Caravati, lì al lavatoio incastrata nella parete, ma ogni volta occorreva un attimo di attenzione, per noi bambini, per individuarla nel grigiore ombroso e umido del posto. Si proseguiva poi verso le sorgenti del Ceppo, nei giorni di calura, o alle Pizzelle nei giorni più freschi e di lì verso i sentieri del Campo dei Fiori. Ma al ritorno da ogni itinerario la tappa obbligata era alla tomba di Domenichino Zamberletti, al cimitero, sulla sinistra di via del Ceppo.
La tomba, scendendo sulla destra, era sempre piena di fiori e di giocattoli, di pupazzetti, di angioletti,
madonnine e oggetti sacri. Qui pregavano genitori per i figli ammalati, mamme che chiedevano aiuto per l’inquietudine dei figli adolescenti, dolori portati qui in silenzio.
E ancora oggi, sessant’anni dopo, anche senza che sia mai avvenuta una “promozione ufficiale” a santo, la tomba di Domenichino Zamberletti è coperta di fiori e di improbabili pupazzetti.
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