Nel corso di una conversazione telefonica con padre Gianni quando il nostro boss ha fatto un rapido cenno a un contatto con un “fratello” comboniano, per un attimo mi sono ritrovato ai tempi in cui ero un ragazzino, uno “sbarbatello” come si diceva nei giorni della tempesta della seconda guerra mondiale. A conversazione terminata sono stato piacevolmente travolto da tanti ricordi. Sfollati nell’ottobre del ’42 da Milano a Camerlata, sede della principale industria tessile lariana della quale papà Silvio era un dirigente, avevamo trovato alloggio in un edificio nuovo, a fianco della chiesa: al piano terreno ospitava il teatro dell’oratorio, mentre i locali del primo e ultimo erano destinati al collaboratore del parroco, il vicario, che per tanti anni non sarebbe mai arrivato.
A gestire l’oratorio sarebbero arrivati i missionari comboniani, che avevano nella confinante Rebbio il loro seminario.
Ne ricordo tre in particolare, padre Salibi, un africano, forse di Egitto o Libia, poi padre Marangoni, che ci offriva il suo paradiso di bontà e di una preghiera affascinante che ci tenevano buoni buoni ad ascoltarlo. Infine padre Ivo Ciccacci, un meridionale focoso, scatenato, che senza che noi ragazzi ce ne accorgessimo ci fece conoscere e amare un Gesù diverso, meno compassato, vicino a noi in modo diverso, un caposquadra entusiasmante.
Mio papà sarebbe stato il padrino di messa di don Ivo, che aveva la famiglia al Sud e che, al pari degli altri missionari, non poteva andare in Africa. A noi pervennero notizie di lui e di padre Marangoni per alcuni anni dopo il 1946: qualche foto con i negretti, i saluti da parte loro, i racconti di colleghi che rientrati in Italia e fatta tappa a Rebbio parlavano fieri di un eccezionale creativo apostolato.
Don Ivo poi inginocchiandosi davanti al suo vescovo e baciandogli la mano ricordava agli inglesi razzisti, protestanti e allora padroni del Sudan, che cosa fosse la fratellanza cattolica.
A Camerlata da borghesino ho vissuto per anni a stretto contatto con i figli degli operai: sarebbero stati per sempre tra gli amici miei più cari, indimenticabili compagni di avventure e di malestri tipici dell’età e di un mondo molto più semplice e più sereno anche se c’era la guerra.
Ho sempre avuto rispetto massimo anche per le compagne, tutte, del nostro cammino terreno.
Già in quinta elementare capivo il loro impegno, la loro maturità: non partecipavano ai giochi o non condividevano con noi il loro tempo libero perché dovevano aiutare le mamme e le nonne nei lavori di casa. E noi non si era speciali: per esempio credo che tutti i ragazzini sfiorati dalla guerra si siano divertiti con “ imprese” di derivazione militare. Io per esempio con un razzo illuminante sottratto con gli amici alla polveriera di Albate dopo un mitragliamento aereo, mi sono esibito nel lancio di un razzo che avendo terminato la sua parabola su un cumulo di segatura umida, ha generato per fortuna solo fumo nel mobilificio Caballini di via Colonna.
Prima di diventare… adulti, ma avevamo i pantaloni lunghi, qualche rimpatriata la si è fatta.
Per anni nel dopoguerra ci fu il boom del ballo, d’estate furoreggiavano le balere all’aperto e noi poco prima della chiusura notturna, quando non si pagava più il biglietto, si andava a succhiare fettine di limone davanti all’orchestra. Ci scappava sempre qualche stecca clamorosa da parte di chi suonava strumenti a fiato. Stop anticipato del ballo e regolarmente si veniva buttati fuori, ma con prudenza perché non era consigliabile usare la forza con un paio di immensi artiglieri da montagna del nostro commando.
Ma il souvenir più divertente di quel tempo lo devo a padre Brambilla, missionario che aveva scelto di vivere i suoi ultimi anni con i comboniani di Rebbio.
Era coinvolgente, sigaro in bocca, un bicchiere di buon vino davanti, era l’idolo dei clienti di un ritrovo dalla lunga storia “rossa”.
Padre Brambilla ebbe molti simpatizzanti insospettabili, e quando morì salirono al seminario facendo una strada che mai avevano pensato di percorrere.
Divenne popolare dopo il racconto di una sua avventura da prigioniero di guerra degli inglesi. Vita abbastanza dura quella dei reclusi nel campo: disciplina ferrea, controlli improvvisi, igiene rigorosa, orari rigidi e non generosi.
La mattina dedicata alla doccia, la squadra di prigionieri di cui faceva parte padre Brambilla si presentò nuda come da regolamento.
Nel silenzio generale – era vietato parlare – una delle guardie – diede lo stop, armò il fucile, costrinse il plotoncino a mettersi in fila faccia al muro. Sirena dell’allarme generale, arrivarono altri militari, poi degli ufficiali che passarono in rassegna schiena e fondoschiena dei prigionieri. Ci furono conciliaboli tra i militari e alla fine fu proprio padre Brambilla a essere prelevato e scortato in infermeria dove entrò anche un soldato con il fucile spianato.
Padre Brambilla aveva la coscienza tranquilla ma cominciò a preoccuparsi quando lo misero a pancia in giù su un lettino e ci fu un’ispezione prima medica poi militare – era arrivato anche il comandante del campo – delle sue natiche anche mediante l’uso di una lente di ingrandimento. Fioccarono le domande, tramite un interprete, le risposte furono esaurienti se dai volti arcigni degli inglesi sparì la preoccupazione e alla fine a ridere fu lo stesso padre Brambilla.
Egli avendo notato che la ceramica del water non sempre era pulita si era portato nel gabinetto un pezzo di un giornale inglese e lo aveva sistemato in modo che non ci fosse un contatto diretto tra i bordi del water e le natiche. L’umidità e la pressione del corpo “stamparono” sulla pelle del missionario alcune parole del giornale che la guardia della sala della doccia aveva scambiato per un messaggio tra spie. E con la guardia anche gli ufficiali, che però non risero davanti a padre Brambilla. Ma nei giorni successivi se lo incontravano non spianavano più la solita grinta riservata ai prigionieri.
Padre Brambilla quando raccontava l’episodio non rideva, ma era felice di regalare un momento di allegria a un uditorio che mai si sarebbe stancato di udire un racconto tanto colorito di un’avventura divertente, ma che dati i tempi, non lo era stata per il protagonista.
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