Nel silenzio riscopriamo la lettura, la voglia di comunicare, di ricominciare a fare quelle piccole cose quotidiane, come parlare a una pianta o a un fiore, ritrovare la memoria storica di una foto, coltivare l’orto, strappare l’erba di un giardino, camminare con la moglie e i figli accanto ripassando il senso del presente senza distogliere lo sguardo dal passato, fermarsi a contemplare un melo rosso in piena fioritura o il giallo acceso di una forsizia o osservare due cani che si fanno compagnia giocando ininterrottamente, forse per celebrare nell’amicizia l’inizio della primavera.
La bellezza del mondo è intatta, forse ancora più bella e convincente, forse ancora più dinamica e invitante, quasi volesse distrarre dai drammi di un virus che immobilizza in una stretta surreale, quasi volesse costringere quel meraviglioso genere umano a fermarsi a ritrovare il senso ampio e profondo di una vita lasciata per troppo tempo in balia di un meschino superomismo. Il silenzio non è mai assenza o mutismo, non è privazione o costrizione, neppure mancanza di attività o socialità, nel silenzio coesiste l’intensità di una natura umana fatta di mille risorse, con la sua voglia di creare e ricreare, con i suoi progetti e con i suoi pensieri, con la sua innata voglia di sopravvivenza.
Nel silenzio e con il silenzio si libera l’accesa musicalità di un verbo, di una parola, di una frase o quella sottilmente affettiva di un verso che giace appeso al cuore di una umanità rivolta alla speranza creativa del poeta. Nel silenzio vibra l’armonia del colore, il cuore si apre al dialogo con una ragionevolezza a tratti troppo scientifica o troppo materialista per essere ben applicata e compresa, si libera il concerto di un’anima per troppo tempo rinchiusa e tradita e una rinnovata spiritualità sbarra la strada a chi ha preferito il delirio dell’onnipotenza all’umiltà della coerenza. Il silenzio è un punto di partenza, ma può anche essere punto d’arrivo, può destabilizzare, ma se accolto con garbo e lasciato decantare può condurre a straordinari percorsi di riappropriazione. È nel tempo del dramma che il silenzio ci aiuta a scoprire chi siamo, cosa facciamo, cosa vogliamo e soprattutto ci induce a produrre brevi ma toccanti meditazioni, anche solo per capire meglio quale potrà e dovrà essere il nostro futuro, quale potrebbe essere la strada migliore per dare un senso più vero e profondo a quel mondo che in cui ci è stato consentito di trascorrere il tempo della nostra esistenza. In questo spazio il tema della vita e delle sue interdipendenze è dominante, il tema della malattia, quello della sofferenza e quello della morte, imprimono al pensiero velocità percettive mai vissute prima.
Cambia di casa il valore, non basta più una consumazione accecante, un tasso alcolemico disarmante per imprimere velocità di pensiero e d’azione, non è più necessario dimenticare, bisogna forse ricominciare a ricordare, rimettendo in ordine il ruolo dei sentimenti e quello degli affetti e, soprattutto, bisogna tentare di rientrare da dove si è usciti, stiamo infatti scoprendo che la libertà non è solo quel valore politico o civile o sociale che ci è stato insegnato, ma è anche e soprattutto un valore morale, qualcosa che portiamo nel cuore e che ci aiuta a ricreare dentro quello che non abbiamo incontrato fuori. C’è persino chi, nel silenzio, ricerca la bellezza di avere accanto qualcuno che ne conforti l’assenza, invitando di nuovo a respirare l’odore acre di una terra che abbiamo imparato a riconoscere e ad amare in virtù delle nostre tradizioni, grazie forse a quel colpo di vanga di un nonno abituato a relazioni fraterne con il pianeta e le sue bellezze. Dunque il paese ha bisogno del nostro rispetto, della nostra educazione, del nostro affetto e della nostra considerazione, ha bisogno di far vibrare con orgoglio un cuore vibrante e dinamico che ha sempre saputo offrire la parte migliore di sé nelle avversità, dimostrando che le narrazioni più incisive sono quelle scritte con il sudore e l’abnegazione, salvo, in qualche caso, dimenticarsi quanto sia fondamentale non perdere mai di vista l’obiettivo, soprattutto quando il peggio improvvisamente scompare e l’illusione è quella di pensare che non tornerà mai più.
Il dramma del coronavirus arrivato dalla Cina qualcosa di molto importante ce lo ha insegnato, forse ad amare un pochino di più il nostro paese, quel paese che in qualche caso perde di quella sua straordinaria sostanza morale e culturale, svilito da chi lo vorrebbe smontare, comprare, depredare. Amare il paese è fare in modo che la sua ricchezza sia per tutti, senza mai dimenticare che dentro la sua immagine c’è quella di un popolo che ha lottato per consegnare al mondo un pensiero forte e profondo su cui riflettere e meditare.
Nel paese dove la cultura è soprattutto arte e musica e dove la scienza, il diritto, la cultura in generale godono di un ampio respiro di libertà, occorre forse guardare sempre un po’ avanti, senza mai sottovalutare le regole che ne governano la civile e collaudata intraprendenza. Il dramma che stiamo vivendo ci apre gli occhi su un bene, la vita, che non ama essere strumentalizzato e usato, perché la sua estensione è pubblica e per questo richiede preveggenza, decisione, unione, determinazione, armonia, studio, ricerca e soprattutto amore.
Nel dramma ci riuniamo alla nostra forza, nella disperazione ritroviamo lo stato e le sue istituzioni, il puro eroismo di uomini e donne che amano anche con il sacrificio della propria vita. Nel silenzio ricominciamo a pregare, a ritrovare un rapporto più diretto con quel Dio dal quale abbiamo preso spesso le distanze, ma che in questi momenti ci aiuta a capire meglio la nostra storia e a saper guardare al futuro non con la paura della morte, ma con la convinzione di fare tutto quello che sia importante per vivere con forza e coscienza cristiana la nostra dimensione umana.
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