Seconda settimana. Sforzo inutile, provare a ricordare ciò che distingue un giorno dall’altro: senza i riferimenti della quotidianità la memoria si appiattisce sul tempo presente. Così i giorni si allineano uno dopo l’altro, quasi uguali.
Sin dall’inizio avevo deciso di non accettare i numerosi buoni consigli degli esperti sulle potenzialità delle giornate di clausura. Volevo, e ancora voglio, fare da me.
Nel frattempo alcune mie azioni quotidiane hanno forzosamente cambiato ritmo ma anche habitus.
In passato (si può dire così?) a tavola, quando qualcuno mi invitava a contenere l’assalto al cibo rispondevo leggera citando il detto varesino “Svelta a mangiare, svelta a lavorare”.
Ora che il rito dei due pasti principali assume il valore di punto di riferimento della giornata, mi trovo a soffermarmi sulle pietanze, sui colori e non solo i sapori di ciascuno, le centellino, mi relaziono a ciò che sta nel piatto.
Mi sto chiedendo se questo o quell’altro ingrediente sarà disponibile anche domani o tra un mese; se scomparirà dalle nostre tavole per le difficoltà della distribuzione.
Non è il timore di morire di fame. È la scoperta della vita propria delle cose: una zucchina, un finocchio, le verdure che in questa circostanza ho preparato, le ho manipolate e osservate con un pensiero più vigile.
Quando una piantina d’appartamento (chi me l’avrà regalata?) ha mostrato i primi boccioli, sono rimasta stranita: mi era sembrata un insignificante vegetale prossimo a concludere la sua breve esistenza, perlomeno nelle mie mani di riconosciuta portatrice di pollice nero.
La piantina sta fiorendo da sé, anzi no; perché, diversamente dal solito, le avevo pulito le foglie ed ero stata attenta alla quantità d’acqua che poteva servirle.
Affiora un ricordo. In effetti, ce n’è di tempo per lasciarne affiorare alcuni lontanissimi nel tempo.
Mia madre mi chiamava “buttalà”, termine che, ho verificato sulla Treccani, si riferisce ad un mobile che sta nell’ingresso e serve a sistemare capi di abbigliamento, borse e oggetti al momento del rientro in casa.
Il titolo me lo ero meritato perché per la fretta usavo e lasciavo con poca grazia le cose sparse qua e là. Spesso le rompevo o le rovinavo.
Con gli anni non ho perso questa caratteristica. Ho continuato a rompere cose. Mi sono sempre difesa rispondendo con un’alzatina di spalle che le cose servono per essere usate, per forza si rompono, invecchiano. Finisce il loro ciclo vitale e comunque la loro utilità è connessa al mio solo uso e consumo.
Niente di grave: in fondo non avendo mai un vaso cinese della dinastia Ming.
Quando si può, gli oggetti si riparano anche. Altrimenti si buttano.
Ebbene, in questa seconda settimana di pulizie profonde della casa, come suggerito dagli esperti di pandemie, mi sono ritrovata a maneggiare le suppellettili della casa con uno sguardo nuovo: ognuno di loro ha un nome, una storia, un posto, al di là del valore intrinseco.
Mentre pulisco la zucchina, il finocchio o la melanzana, bado agli sprechi, getto il meno possibile, regalo una vita più lunga a ciò che mi finisce tra le mani.
Sto imparando il senso della cura che fino ad ora avevo riservato agli esseri umani e agli animali domestici?
Sto, forse, guarendo dall’ansia del fare? Sarà che intuisco che la sottomissione del mondo degli oggetti al proprio consumo inconsapevole è un disvalore?
Il tempo, e oggi ne abbiamo davvero tanto disponibile, lo dirà.
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