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Attualità

CI SIAMO

EDOARDO ZIN - 27/03/2020

papa“I cristiani non sono distinti dagli altri uomini, né per territorio, né per lingua, né per modi di vivere. Essi infatti non abitano città loro proprie, non usano un linguaggio particolare, né conducono uno speciale genere di vita……Obbediscono alle leggi stabilite, ma con il loro tenore di vita superano le leggi”. Ho voluto riportare una parte della celebre lettera a Diogneto, un’apologia del cristianesimo nascente, nella bella traduzione di Michele Pellegrino.

Mi sono venute alla mente queste significative parole seguendo il dibattito che si è aperto sui giornali e sui social a proposito delle disposizioni dei vescovi che – in seguito ai decreti del governo emanati per contrastare la diffusione del corona virus – hanno sospese le Messe con il concorso del popolo, i matrimoni, i battesimi, le celebrazioni esequiali, pur rimanendo le chiese aperte. Una serena discussione si è avviata tra credenti, tra credenti e vescovi, ma essa ha toccato punte di accese dispute fra cattolici “ubbidienti” e cattolici “intransigenti”, nonché calunnie dei soliti agnostici non pensanti che ne hanno approfittato per lanciare i loro strali contro la Chiesa d’oggi, colpevole di “sottomettersi al potere politico di sinistra”.

Ha dato stura alle critiche un famoso storico che rimprovera alla Chiesa d’oggi di non lasciare aperte le porte della Chiesa per accogliere i malati, come succedeva durante il medio – evo. L’ha seguito un altro storico, noto anche per essere un fervente cattolico e fondatore di un movimento ecclesiale sempre in prima linea nel volontariato: si lamenta che “il giurisdizionalismo, ispirato certo da prudenza…non consideri una visione globale della persona e della sua tenuta” con la conseguenza di creare ferite nelle relazioni tra le persone che non possono ricevere il conforto della fede. Alza il tono anche un biblista a me tanto caro e che apprezzo per le sue doti di umanità. Se la prende con “i pastori senza pecore e con le pecore senza pastore. Pastori salariati disposti alla cura dei fedeli e dei loro bisogni spirituali rispetto a medici e infermieri del corpo” che abbandonano le pecore. E così via: c’è il giornalista che, per difendere un politico fotografato assieme alla sua compagna che gira per una Roma deserta a fare shopping, chiama in causa Papa Francesco il quale, claudicante a causa di un’artrosi all’anca, percorre via del Corso per recarsi a San Marcello a venerare un Crocifisso miracoloso e a chiederGli l’intercessione presso il Padre perché faccia terminare l’epidemia. Non sono mancate neppure le denigrazioni contro una Chiesa “nemica dell’uomo e della famiglia, mondialista, malthusiana, abortista, migrazionista”.

In un frangente così doloroso, nel mezzo di una sciagura dalle immense proporzioni, per arginare le quali le autorità civili hanno emanato a più riprese provvedimenti sempre più restrittivi, potevano i vescovi disobbedire alla legge civile? No, perché la Chiesa non è esente dalle disposizioni civili proprio come è scritto nella lettera a Diogneto.

Mi nascono nel contempo una preoccupazione e una certezza: come può la Chiesa essere vicina a chi soffre e cerca consolazione, a chi teme il contagio, a chi è malato, ricoverato, magari in agonia e non può avere la carezza di una persona cara e la benedizione del Signore impartita da un suo ministro? Non possiamo dimenticare che anche ai sacerdoti e alle persone più generose è vietato attraversare le soglie di case, istituti, ricoveri, carceri. I cappellani ospedalieri si prodigano a consolare i malati e ad accompagnarli all’altra riva, si affiancano alla scienza dei medici nel ministero della consolazione per chi sta per lasciarci e per riportare ai figli, alle mogli, ai mariti le ultime parole, il loro addio, mostrandosi presenti come Chiesa. Altrettanto fanno i parroci che nel territorio tengono i contatti con i parenti dei contagiati, plasmando il volto della Chiesa come vicinanza, come condivisione nel dolore, come comunione. Chi scrive di una Chiesa che è scomparsa non dice che il virus non rispetta i preti. Cari amici che abbiamo conosciuto, tante persone che abbiamo incontrato senza saperlo, tanti anziani finiti in una casa di riposo, dove l’umana carità ha potuto assisterli, sono passati alla Vita senza che i vivi abbiano potuto accompagnarli al passo estremo. Eppure io penso che la Chiesa era lì, vicino a loro, nella carezza di un infermiere, nella preghiera di un medico, nella delicatezza di chi ha chiuso a loro gli occhi. La Chiesa, cioè il popolo di Dio, era attenta a loro, si chinava su questi morti solitari, lacrimati da persone assenti col corpo, ma vivi nell’amore che non conosce limiti o nella pietà che non ha confini.

E la Chiesa ha pensato ai vivi. Solo a Roma per pochi giorni le porte delle chiese si sono chiuse (“Un errore di comunicazione” – mi ha confidato un vescovo). La chiesa non è solo il luogo in cui il popolo di Dio si raduna la domenica per ascoltare la Parola e spezzare il Pane Eucaristico. È il luogo dove ci si può avvolgere nel silenzio, piegare le ginocchia e rispondere nella contemplazione del cuore alle domande che Dio pone a chi si mette in suo ascolto. È il luogo in cui possiamo distruggere la stanchezza e riprendere l’alacre risveglio della speranza e la rinascita del domani. È il luogo che invita all’interiorità, alla meditazione, a una preghiera che si fa intima, calda, domestica, non panica come quella che sorge spontanea vedendo le immagini su uno schermo televisivo. Tutte le volte che sono entrato nella chiesa del mio villaggio in questi giorni ho trovato qualcuno che alla presenza di Dio pregava o recitava il Rosario o accendeva un lume.

C’è stato chi ha argomentato sul fatto che la Chiesa non può sospendere l’Eucarestia, riducendola alla messa che il sacerdote celebra senza la presenza del popolo. Ma la Messa non è mai un’azione di Grazia solitaria, del solo prete. È l’azione di tutta una comunità che il sacerdote sente accanto a sé e di cui offre richieste, domande, sacrifici e dolori, per cui la Messa che celebra è risorsa di umanità per tutti perché egli spalanca gli occhi e allarga le braccia di fronte a tutta la comunità. Come può avvenire questo se la legge degli uomini vieta il radunarsi assieme? Nel gesto di spezzare il pane è racchiuso un realismo umano altissimo che ci ricorda come possiamo ricevere il pane “di” vita anche se non possiamo condividere il pane “per” la vita con chi è nel bisogno. “Con il loro tenore di vita”, i cristiani possono testimoniare che “senza domenica non possono vivere” e che il digiuno eucaristico a cui sono sottoposti può diventare condivisione con chi soffre negli ospedali o per il distacco dai familiari, dagli amici. Ciò vale anche per i “golosi” dell’Eucarestia, una colpa come quella dei bambini che rubano la marmellata, i quali tentano di appropriarsi dell’Eucarestia a scapito degli altri, partecipando a messe “private” e celebrate nell’intimità di pochi prediletti.

Non è questo il tempo delle processioni miracoliste: dimostrerebbero la debolezza della fede. È questo il tempo piuttosto di continuare a nutrirla assistendo – anche se non partecipando – all’Eucarestia celebrata nei luoghi del dolore e trasmessa alla televisione dal nostro Arcivescovo, pregando con lui e con tutta la Chiesa: “per non sprecare questi giorni difficili” – come ci chiede papa Francesco.

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