Abbiamo riempito il mondo di bombe a orologeria. Bombe ambientali, militari, demografiche, economiche, politiche e sociali. Inquinamento di aria, suoli, acque, abissi e monti; incendi; siccità; riscaldamento climatico; innalzamento dei mari e scomparsa delle coste; smodato consumo di suolo; perdita di biodiversità; eccesso di tecnologie inquinanti, di produzioni pericolose, di depauperamento di risorse vitali; armamenti di ogni tipo; insostenibile sovrappopolazione; liberismo sfrenato; globalizzazione incontrollata; collasso della politica; consumi eccedenti i bisogni; desideri insostenibili; precarietà; iniquità sociali; perdita di diritti; qualità della vita in bilico; cultura dello scarto; indifferenza. Ci mancavano solo le pandemie. Siamo seduti su una santabarbara. Se solo alcune delle varianti convergessero, la parabola del rischio potrebbe impennarsi.
Già nel 1972 il Club di Roma ci invitò a domare lo sviluppo, ma pochi, a destra come a sinistra, hanno mosso un dito. Ormai le cose accelerano: nel giro di pochi mesi disastri globale e disastri locali convergono. Amazzonia, Australia, Siberia bruciano; Venezia è coperta dall’acqua; un cinico come Erdoğan ammassa decine di migliaia di migranti ai confini con la Grecia per ricattare un’altra volta un’Europa arrendevole e imbelle; e ora il Covid-19, con un moto circolare che non sappiamo arrestare, si propaga globalmente. Anche nel nostro microcosmo locale alcuni segnali dovrebbero allarmarci: la catastrofe del Parco del Ticino a causa dell’irresponsabile scelta della Malpensa; la crescente mortalità delle alberature di pregio; gli incendi nel parco del Campo dei Fiori; i rischi – per fortuna scongiurati, ma non possiamo affidarci alla sorte – dell’incendio alla Galaxy di Gallarate pochi giorni fa. Per restare in Lombardia, solo un mese fa la FIGC e le società asservite a Sky, autorità senza autorevolezza, hanno permesso la sfida a San Siro tra Atalanta e Valencia. Ora la provincia di Bergamo è il territorio con più morti al mondo. Per il business di pochissimi sono cavoli amarissimi per tutti.
E pensare che, negli anni ’90, qualche filosofo, moltissimi economisti e la quasi generalità degli imprenditori avevano convinto i più che il rischio nel postmoderno era bello e che la Divina Provvidenza del Mercato era l’anima del cambiamento, l’attuazione della teodicea leibniziana del migliore dei mondi possibili.
Le cose sono divenute così complesse e intrecciate che affrontarle tutte in una volta non sembra possibile se non con scelte radicali, aspre e condivise anche quando ledono un po’ tutte e tutti negli interessi singolari, senza distinzioni di genere, di lingue, passaporti, grado di istruzione, classi, conto in banca e ruoli. La sola distinzione riguarda le età: i vecchi tardano a mettersi a disposizione dei giovani; giovani e adulti tardano a svegliarsi e a muoversi.
Purtroppo non c’è un punto neutro e mediano tra chi vuole ostinatamente andare avanti così e chi paventa la catastrofe. Lo spostamento dell’ago della bilancia chiede di ridurre al minimo i rischi prima di ricercare ad ogni costo crescita e profitti. Per mezzo secolo il mondo intero ha vissuto spericolatamente. La prevenzione di mali certi fu subordinata all’inseguimento di beni incerti e volatili: fu un lusso insostenibile. Come tabagisti e alcoolisti ci diamo detti: “Smetto quando voglio”. Ma quasi sempre arriva il cancro o la cirrosi.
Arthur Koestler, che i mostri del comunismo reale aveva conosciuto bene e da dentro, parlò per tempo, lucidamente, di “un dio che è fallito”. Anche il capitalismo realmente esistente è un dio che è fallito. Un dio più pagano e miscredente del vitello d’oro di Aronne: il Mercato senza regole, senza occhi, senza scopi. È verosimile che un altro mondo non sia possibile nel senso delle speranze delle anime belle. Ma questo mondo è certamente inaccettabile. Come diceva Enzo Tortora, “Big Ben ha detto stop”. Prendiamone atto e cambiamo rotta.
Ma cosa possiamo fare? Come domare il capitalismo globale senza regole, salvare la democrazia liberale, iniziare a ricostruire l’ambiente? Dobbiamo ripartire dalla politica. C’è un deficit di autorità globali; ma dietro c’è un deficit di autorevolezza, di esemplarità e di legittimazione. La destrutturazione sociale accentua questi deficit. Come scrisse Hegel nelle Lezioni sulla Filosofia della storia, “ogni cosa viene aggiustata secondo il proprio gusto particolare, non è fissato il fine generale”. La capacità correttiva dei buoni comportamenti individuali non è incisiva e diffusa come dovrebbe. Chi se non la politica sorretta dal pensiero e dalla conoscenza, può indicare questo fine? Tra l’altro non si può procedere se alcuni fini irrinunciabili non vengono condivisi. Non possiamo invocare più autorità rinunciando all’autorevolezza, ma nemmeno lasciare la seconda nell’impotenza. Sempre Hegel: “A mancare non è la volontà capace di impartire un ordine, bensì quella capace di eseguirlo in obbedienza a un comando interiore”.
Questi giorni di sosta forzata e di lutti privati e collettivi forse ci indurranno a riflettere non tanto sulle emergenze, ma su come affrontarle e su come cominciare a prevenirle e a smontarne i meccanismi perversi. Ne parleremo nel prossimo articolo: qual è il punto di equilibrio tra autorità e libertà, tra urgenza delle decisioni e autorevolezza dei decisori, tra sentimenti e rappresentanza? Abbiamo anche paradigmi di soluzione delle emergenze molto diversi: valuteremo dagli effetti.
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