Il futuro arriva quando meno te lo aspetti. La pandemia che ci strazia nel fisico, nei sentimenti, negli affetti, riconsegna dolorosamente alla natura il suo primato, dopo che una sbornia di dominio aveva colto la nostra specie incapace di sentirsi connessa al resto del vivente, al Pianeta, al Cosmo, che viene da ben 14 miliardi di trasformazioni, ricombinazioni, stupefacenti magie, con tempi e spazi propri. Tempi e spazi che ci siamo illusi di scandire e percorrere a velocità incommensurabili e in una dimensione virtuale di ubiquità.
“Nulla di questo mondo può esserci indifferente” aveva affermato Francesco nell’Enciclica Laudato Si’ cinque anni addietro. E si riferiva a tutto il vivente, non solo a chi nel suo altero antropocentrismo si era nominato re e indiscutibile dominatore. Un Papa venuto dai margini del mondo e per un intero lustro pressoché inascoltato, senza che nascesse nelle nazioni che si dedicano ad una “terza guerra mondiale a pezzi” una consapevolezza di un cambio d’epoca e non solo di essere in un’epoca di cambiamento.
Il coronavirus e le incessanti notizie sul suo dilagare hanno provocato un’ansia che forse nemmeno la guerra riesce a creare. Un’ansia che può divenire acuta, ma generalmente viene vissuta unicamente come qualcosa di simile allo stress, sullo sfondo del corpo e della mente, di cui siamo solo a metà consapevoli. Ne nasce un’impotenza, un sentimento che contribuisce a spingere in secondo piano il ragionamento, a non renderci conto che il minuscolo e impalpabile virus è solo il segnale di eccessi, consumi e sprechi della specie “sapiens”, che ha presunto di farsi “faber” di tutto quanto la circonda, al punto di progettare la Terra come un proprio manufatto.
Le stime di autorevoli economisti internazionali, che cercano di dare una prospettiva economica degli effetti dell’epidemia dettano scenari tra cui il più favorevole spera in una stagionalità del morbo e dunque in una ripresa della normalità entro la fine della Primavera.
Sappiamo che non andrà così, che la modernità delle contraddizioni è uno zoccolo talmente duro da riaprire conflitti non sulle chiacchiere del presente, ma sulla direzione urgente del cambiamento prossimo futuro. Quel che succede in questi giorni sul dovere essere o meno al lavoro – a rischio di contagio già nel momento in cui si viaggia da casa a contatto di gomito – è lì a dimostrare che tra profitto, cattiva o buona economia e lavoro dignitoso e sicuro c’è ancora di mezzo una visione che lascia la solidarietà in fondo alla scala degli interessi.
Ci accorgiamo così che si è consentito che le disuguaglianze fossero ammesse come motore di una crescita che riguardava sempre più una minoranza e che solo la ricostruzione di un intreccio tra etica e politica avrebbe potuto rappresentare il passaggio fondamentale in una prospettiva di società alternativa a quella fondata sull’arricchimento e sull’individualismo competitivo.
Sullo sfondo – e molti l’avevano capito già prima di questi giorni tragici – c’è un clima, che muta bruscamente, una recessione che tocca non egualmente i diversi gradini della società ed una biosfera che stenta a rigenerarsi ai ritmi con cui la deprediamo.
In questi giorni in pochi si accorgono come in Italia le competenze scientifiche di politici e giornalisti siano bassissime. Eppure, è tra loro, sempre gli stessi, che si svolge il dibattito in un ritornello ossessivo che confonde scienze e tecnologie, democrazia sociale con “opinion leader”, seduti attorno ad un tavolo di vetro o in collegamento Skype…
La sanità ha dato prova di un’eroica, oltre che generosa, messa a disposizione dei colpiti dall’epidemia, ma non è bastata a occultare gli errori di giunte regionali e governi che hanno indebolito irreversibilmente il servizio sanitario nazionale. Un Servizio – esso sì – vanto della generazione che aveva saputo lottare per l’emergenza della salute in fabbrica e fuori quando si andava deteriorando sui territori inquinati e cementificati del boom economico.
Purtroppo, niente come un virus dilagante, che solo la solidarietà responsabile a livello universale riuscirà a fermare, mostra che il re è nudo. Il residuo del vecchio stato sociale potrà resistere ad un invisibile parassita ed innovarsi, solo se tutto non tornerà come prima.
Come non vedere, dopo gli elenchi terrificanti dei contagiati, dei ricoverati, dei deceduti, che quel che si consuma intorno a noi, dalla casa comune che va a fuoco al surriscaldamento degli oceani; dai ghiacci dell’Artico a quelli delle nostre Alpi che si sciolgono; dagli eventi estremi che diventano sempre più normali e che in una notte abbattono decine di migliaia di ettari di bosco; dall’invasione delle locuste nel Corno d’Africa, ai respingimenti dei migranti al confine della Turchia, non sono che altrettante facce della medesima insostenibilità?
Viviamo in una società sfibrata dall’individualismo e questi giorni pesantissimi forse ci porteranno pensieri, prassi, speranze ed orizzonti nuovi. Purché non cediamo, come abbiamo già fatto sul tema dell’emigrazione, alla paura, tanto solleticata e accarezzata al fine di mortificare la democrazia. Si sta presentando il conto dell’avere delegato alla comunicazione la tessitura necessariamente faticosa della trama di relazione tra istituzioni e società. Sono invece le donne e gli uomini in carne ed ossa, che torneranno a camminare nelle strade, a ritrovarsi nelle piazze e a recarsi sicuri nei luoghi di lavoro, le risorse su cui contare, ascoltandoli e non lasciandoli in solitudine a far da muti e inascoltati spettatori sera dopo sera, domenica, dopo domenica. Diamo loro fiducia per un modello di società, economia, cultura e politica che deve farci tornare a richiedere urgentemente una “riapertura della storia”.
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