-Caro Mauro, quella volta che…
“Caro Massimo, per una volta diciamo quelle volte che”.
-Quali volte?
“Le tante in cui ci si è messi al tavolo d’un ristorante. Oggi, un ricordo”.
-La rivincita della cucina casalinga…
“Meritata. Però senza scordare i sapori creati da maestri del gusto”
-Numerosi, dalle nostre parti?
“Come no. Questa è terra di gourmet e chef, prima ancora che si straparlasse e si teletrasmettesse di gourmet e chef”.
-Un esempio?
“Imbarazzo nella risposta. Me la cavo andando indietro di mezzo secolo, in omaggio ai migliori anni della mia narrazione personale. Che, come per tutti, sono quelli più lontani dal presente”.
-Apriamo il calendario a quale data?
“Inizio dei Settanta. Ecco il nome: ristorante Kalimera, di fronte all’ippodromo delle Bettole. L’Azienda autonoma di soggiorno, che dirigevo, ne fece la sua sede. Attorno, i campi da tennis. Poi sarebbero venuti piscina e palaghiaccio. Uffici al piano di sopra, ristorante a quello di sotto. Il Kalimera, appunto. Un artista della cucina: Michele Colonna. Un piatto succulento: la pasta alla Biagio, rigatoni al misterioso sugo d’inarrivabile bontà”.
-Un altro nome, uscendo da Varese?
“Località Ganna. Ristorante: Tre Risotti. Fuoriclasse del fornello: Pino Santolin. Uomo peraltro poliedrico, sarebbe divenuto un personaggio noto qui e altrove, tra l’altro inventandosi pioniere del ciclismo femminile e dilettandosi di pittura”.
-Tre risotti, in realtà uno: con gamberetti, rane, funghi…
“Prelibatezza speciale. Una delle tante. Per assaggiarle, venivano a Ganna da assai lontano. La mia ‘Madeleine’ preferita è una cena il giorno precedente la nascita della mia prima figlia, Alessandra. Ci ritrovammo lì a famiglia completa. 4 agosto ’71. Non avrebbe potuto esserci attesa meglio apparecchiata. Quando la mia memoria torna lì, riassaggio uno squisito ricordo epocale”.
-E sul lago? Mario e Mariuccia alla Schiranna, il Passatore lì vicino, per non dire dell’Hermitage a Lissago. Locali di qualità…
“In uno di questi scoprii un mangiatore più veloce di me: Enrico Somma. Promoter d’eventi, editore, imprenditore eccetera. Ci capitò anche di conviviare con due ex della Legione straniera, ormai in quiescenza e benestanti. Il cameriere, un arabo, sentì i nostri discorsi e si dolse: solo agl’italiani, disse, danno una pensione così ricca”.
-Memorabili ristoranti, meno memorabile la tradizione culinaria locale…
“Semplice, riferita a un territorio di laghi e montagne, per forza in scia di echi milanesi. Però con una riconoscibile identità. Spesso si è cercato di valorizzarlo. Fu per esempio organizzata una manifestazione, tra il ’72 e il ’73, allo scopo d’unire il fascino del Sacro Monte con la gastronomia varesotta. Serate di luci e cene tipiche, ahinoi rovinate dal maltempo”.
-Cos’è il Sacro Monte per te?
“Se penso al periodo appena citato, un traguardo sofferto”.
-Perché?
“Con qualche compagno d’attovagliamento organizzavamo talvolta sortite singolari. La più faticosa: salire in bici d’estate al Sacro Monte indossando cappotto e tuba. Provateci”.
-Chi ci provò, riuscì ad arrivare in cima?
“Sì, ma chiedendo lungo il percorso un aiuto agli ospiti dell’auto che lo seguiva”.
-Qualche spinta o addirittura un traino…
“Macché. Chiedendo di poter bucare la tuba in alto. Per dare aria alla testa”.
-La famosa idea della tuba…
“Siamo una terra d’inventori. Anche di battute del tubo”.
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