“Pronto, casa Bufalini?”. “Sì chi parla?”. Non si poteva sbagliare nell’identificare, all’altro capo del filo, la sua voce che più che altro era un rombo di cannone. “Sono Ettore da Varese”. “Un è possibile!” e il rombo parve far saltare anche il cannone “Un è possibile! Come stai?”. Era tanto che non ci si sentiva e quella fu l’occasione per un invito a Varese in vista di una serata alle Bettole dedicata, dalla Varesina Corse Cavalli, alla grande Ignis, serata che fui incaricato di organizzare contattando tutti gli ex in un giro telefonico mondiale per averne le presenze.
Lui venne arrivando in macchina da Pisa verso le 20.30 e ripartendo all’incirca a mezzanotte senza neppure fermarsi per la nottata dovendo essere di ritorno per la mattina successiva.
Tale, e tanto forte, era il desiderio di rivedere gli ex compagni, di respirare, ancora una volta, l’aria di quella Varese il cui nome, lui grande campione, aveva contribuito a rendere illustre in tutto il mondo sia vestendo la maglia della Ignis che quella della Nazionale.
Grande difensore con quelle sue braccia ruotanti che, partendo da sotto il proprio canestro giungevano – più o meno – sino dietro il banco della sua panetteria di Pisa, da una parte a stoppare palloni e, dall’altra, a distribuire il pane.
Lì, a Pisa, era nato il 28 aprile 1941, e lì è deceduto il 1° aprile 2012. due date inframmezzate da tanta gloria cestistica che dopo gli inizi nella Libertas Livorno esplose qui da noi dove contribuì non poco alla conquista dello scudetto (1963-1964) e alla Coppa Intercontinentale (1966).
Quando da Varese partì per Napoli (dopo Gavagnin, Maggetti, Flaborea e Vittori) nell’ambito del disegno di Giovanni Borghi di rafforzare il basket partenopeo con la creazione dell’Ignis Sud, le sue braccia continuarono a ruotare anche in occasione delle venute a Varese per giocare contro i suoi ex compagni.
In una di queste Tonino Zorzi, che allenava la “Sud”, ben conoscendo le caratteristiche della “Nord”, mise Sauro anziché su Ossola (solitamente suo diretto avversario nelle marcature) scarsamente propenso ad andare a canestro, al centro della lunetta in un sorta di battitore libero mai visto prima nel basket. Di lì non passò nessuno: impossibile superare la rotazione tipo falce di due braccia infinte. Poi, nell’intervallo, Tracuzzi mise riparo alla situazione ordinando ad Ossola di “entrare” a canestro e le “pale”, tipo mulino, furono ridimensionate. Lui non era il classico toscanaccio, il pur simpaticissimo sanguigno formato Nesti espressione tipica della sua terra.
Lui era un tranquillo “A quiet man” più che un “toscan man”. Il classico gigante buono che anche in campo non eccedeva mai in cattiveria. Del resto non ne aveva bisogno, vista la mole gli bastava spostarsi per farsi largo. Amico di tutti, buono e affettuoso. Aveva forse più amici lui a Varese di un puro sangue locale.
Di Varese si era innamorato di quell’amore che, del resto, colpì un po’ tutti i suoi compagni di squadra. Della sua malattia mi aveva parlato Guido Carlo Gatti nel corso di un recente colloquio telefonico. Poi, qualche tempo dopo mi chiamò proprio lui, Sauro, ma non riuscimmo a contattarci perchè in occasione della sua chiamata io ero assente e quando richiamai il numero in mio possesso non era più il suo. Tentai più volte ma senza esito. Mancai l’occasione per un’ultima chiacchierata.
Ma contò poco. Mi bastò pensare di essere ancora presente nel suo affetto, nel suo ricordo.
Come lui, insieme a qualche altro “dei nostri” che l’ha preceduto, sarà sempre presente nei miei ricordi e in quelli di tutta una Varese cui lui ha dato tanto e che, in fondo, era anche un po’ sua.
Sul suo ultimo giaciglio dovrà splendere una maglia gialla con impresso, ben in vista, un numero 6.
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