Amarcord è una parola unica formata dall’unione della frase, in dialetto romagnolo, “a m’arcord” (io mi ricordo), dove la “a” sta per un io forte, un “io me stesso”, che si dovrebbe pronunciare magari accompagnandola con una botta della mano sul petto. Da molti anni – una quarantina almeno –, cioè da quando Federico Fellini la coniò per dare il titolo a uno dei suoi film più celebri, anche nel lessico italiano è divenuta sinonimo di rievocazione un po’ ironica e un po’ nostalgica, memoria, e – appunto – ricordo.
Fellini scrisse la sceneggiatura di Amarcord insieme con il coetaneo Tonino Guerra, poeta e scrittore di Santarcangelo di Romagna, scomparso qualche settimana fa a novantadue anni. La classe del 1920 è davvero quel che si dice una classe di ferro. Oltre a Fellini e a Tonino Guerra, vengono per esempio in mente due colossi del giornalismo italiano – Enzo Biagi e Giorgio Bocca – (ma anche papa Giovanni Paolo II era del ’20); una classe di uomini forti e teneri al tempo stesso, specie nella terra di Romagna, così ostica e trasgressiva. Il loro “amarcord”, dunque, che si riferiva agli anni di un’Italia ormai lontana, ma non lontanissima, non poteva che snocciolarsi negli anni del fascismo, visti in chiave ironica e critica, come dev’essere sempre per qualsiasi forma di ricordo, e con una vaga nostalgia che va inquadrata solo nel fatto che la memoria tocca l’età perduta della giovinezza, o dell’ancora più intensa adolescenza.
Nel 1974 con Amarcord Federico Fellini conquistò il quarto Oscar per il miglior film straniero (un quinto l’avrebbe ottenuto nel 1993, alla carriera, pochi mesi prima della morte). Gli altri tre li aveva avuti nel 1956 grazie a “La strada”, nel 1958 per “Le notti di Cabiria” e nel 1964 per “8 ½”. Ma è proprio con Amarcord che, a cinquantaquattro anni, il grande Federico raggiungeva il vertice della notorietà, oltre che quello della bravura e della poesia cinematografica. Tonino Guerra, non digiuno di cinema (era stato collaboratore di Giuseppe De Santis, di Damiano Damiani, di Michelangelo Antonioni, di Vittorio De Sica…), ma anche fine poeta, subentrato in un certo senso ad altri grandi scrittori e sodali di Fellini (Tullio Pinelli e, soprattutto, Ennio Flaiano), gli aveva dato una grossa mano.
Il film è un affresco del ricordo di un anno vissuto in una cittadina di Romagna – Rimini, la città di cui era originario Fellini – alla metà degli anni Trenta, quando sia Federico sia Tonino erano adolescenti. È un buon esercizio, per chi conosce Rimini (il borgo e anche il mare furono completamente ricostruiti negli studi di Cinecittà), ritrovare le “cose vere” della cittadina di provincia, quelle che si affondano nel cuore della poesia e del ricordo e quelle più pertinenti a certi vezzi cinematografici felliniani. In questo modo – forse più riferibili a Tonino – sono per esempio le rappresentazioni di alcuni luoghi, le case, quelle case di un color giallo pallido che sembrano affondate nella sabbia, con una rampa di scale che porta a un piano di poco rialzato: alcune se ne scoprono anche oggi, trasformate in villette residenziali, in viale Pascoli o in viale Tripoli; o la scena in cui Titta – il protagonista di Amarcord, ginnasiale un po’ attempato, nel quale dovrebbe essere individuabile da giovane l’avvocato Titta Benzi, grande amico e compagno di liceo di Fellini, un monumento della “vecchia” Rimini – balla d’inverno con altri ragazzi davanti al salone del Grand Hotel, sognando i fasti dell’estate.
Anche la descrizione della famiglia di Titta è tutto un programma pieno di nostalgia, e di poesia, una famiglia di quelle di una volta: la mamma Miranda, l’ “azdora”, nel film magistralmente interpretata da Pupella Maggio; il babbo Aurelio; il fratelllino un po’ monello malizioso e dispettoso di Titta; il nonno; un fratello della mamma, il Pataca, bamboccione in casa a quarant’anni suonati; una domestica, la Gina, sul cui sederone ogni tanto il nonno allunga le mani.
Ancora, struggente è la sequenza del funerale della mamma, nel momento il cui il corteo e il feretro indirizzati al cimitero si devono fermare a un passaggio a livello per consentire il transito di un treno. Ed è così ancora oggi, alle Celle di Rimini: la ferrovia, quella diretta a Sud e che corre lungo l’Adriatico, taglia in due la città, lasciando da una parte la Marina e dall’altra il borgo.
Di sicuro felliniani, invece, sono certi personaggi (o animali) grotteschi, come la Gradisca o la Tabaccaia o la Volpina, mostri di sesso; come Biscèin, lo sbrindellato venditore di sementine; o come le mogli dell’Emiro che, arrivate all’improvviso nella città di mare, fanno una misteriosa e curiosa passerella; come il pavone fuggiasco del palazzo nobiliare; come la monaca nana e lo zio matto Teo (“Voglio una dooonaaa…”) e tutta la serie dei professori del liceo…
Tornando al significato di Amarcord, v’è anche un’interpretazione, un po’ provocatoria, di Tonino Guerra, il quale spiega che questo vocabolo nasce anche dalla “comanda” di chi – una volta – entrando al caffè ordinava un amaro Cora… Ma una poesia dialettale che apre il volumetto della sceneggiatura, attribuibile allo stesso Guerra, dovrebbe eliminare ogni equivoco. Si intitola “A m’arcord”: “ Al so, al so, al so, / Che un om a zinquent’ann / L’ha sempra al mèni puloidi / E me a li lèv do, tre volti e dè, / Ma l’è sultènt s’a m vaid al mèni sporchi / Che a m’arcord / Ad quand ch’a s’era burdèll.” (“Io mi ricordo”: “Lo so, lo so, lo so, / che un uomo a cinquant’anni / ha sempre le mani pulite / e io me le lavo due o tre volte al giorno, / Ma è soltanto se mi vedo le mani sporche / che io mi ricordo / di quando ero ragazzo”).
Perché Amarcord è la lunga parafrasi di una stagione e del tempo che passa. Il film comincia e finisce con le “manine “ – i fiori dei pioppi – che volteggiano nell’aria. Come sempre succede, all’inizio della primavera.
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