La natura viene fuori all’alba. Cantano improvvisamente i galli della vicina fattoria, sento un cane abbaiare lontano, ma sulla strada non passano le automobili, il paese è spento. Sarà ancora una tediosa, taciturna giornata di marzo come quella di ieri? Sono anch’io relegato in casa, fermo davanti al computer e tento di raccogliere in me i pensieri di una settimana. Incontro la mia solitudine ed essa mi fa compagnia, ragiono con essa come con un amico.
Apro il giornale che mi dà la triste conta di ieri: 24.747 contagiati fino, 1.809 deceduti, 2.335 guariti, 1.672 in terapia intensiva.
Mi arrovello il cervello: come è potuto succedere questo? Come può un piccolo, inerme, subdolo virus mettere le sue radici negli interstizi polmonari dell’essere umano e provocare danni simili a quelli di una guerra? Come ha potuto espandersi così velocemente? Come non si riesce a sconfiggere la pandemia? Nessuno ha risposte a queste domande. Posso solo riconoscere che ho scoperto il senso della finitudine, della non comprensibilità del reale, della sua definitività. La scienza e la tecnica mi avevano promesso un progresso infinito e le nuove tecnologie dovevano offrirmi nuove capacità, infinite conoscenze, incremento del benessere. È bastato un essere minuscolo per togliermi la possibilità di stringere una mano a chi incontro, di abbracciare un amico, di andare in libreria e perfino di assistere alla Messa con la gente della mia comunità.
Sarà stato lo “scientismo”, l’ideologia che ha negato un fine, che ha oltrepassato il buon senso, che ha reso la vita umana al di sopra del livello di una farsa a costringermi a restare tappato in casa? O sarà stato il “tecnicismo” – cioè la tecnica degradata in forme dogmatiche – che ci ha condotti a devastanti conseguenze fino a stimare che l’uomo non avrà più bisogno di lavorare? O sarà stato un uso eccessivo delle nuove tecnologie a cui abbiamo affidato la meccanizzazione dei servizi, perfino della cura della persona? E che dire dei mezzi di comunicazione che considerano i dati di informazioni superiori all’esperienza, ma non dispensano sapienza, frutto di dialogo, di riflessione, spesso di travaglio? (Quale gradimento assistere in questi giorni a programmi televisivi con studi vuoti senza pubblico che applaudiva tutto e il contrario di tutto!). E la democrazia affidata a certe piattaforme o urlata nelle piazze non ha spersonalizzato i rapporti umani, rendendola più fragile e inquinabile fino a metterla in pericolo? E alla politica, rappresentata da giovani sbruffoncelli o da tecnici di successo, ma privi di competenza, di senso di responsabilità, non abbiamo forse affidato le sorti di un Paese? E alla sola economia non abbiamo concesso l’incremento del benessere, mentre esso è frutto di una migliore qualità della vita, di educazione, di salvaguardia del creato? E la cultura non ha contratto la memoria, la storia, il passato, le tradizioni più belle?
Ecco, non voglio farmi dominare dalla supponenza dell’uomo – quanti ne ho sentiti in questi giorni! – che si dispiega fino a ferire l’evidenza. “Ci voleva un male comune per dirci che cosa è il dimenticato e deriso bene comune.” – ha scritto in questi giorni Luigino Bruni, un economista che stimo.
Quando tutto sarà passato, occorrerà riflettere sulla ricostruzione del nostro Paese, come hanno fatto i nostri nonni e i nostri padri dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ma avremo bisogno di altri leader e di un’altra classe dirigente. Avremo bisogni di strateghi che dialoghino con gli attori economici e sociali, che siano creativi, che propongano rotte sicure, infondano il piacere di lavorare tutti assieme per il bene di tutti. Avremo bisogno di uno stato produttore che fornisca con la migliore efficienza i servizi essenziali, a cominciare dalla scuola, ma anche la sicurezza e certe grandi infrastrutture in grado di far riconquistare l’uguaglianza delle possibilità e accettare una giusta parte di solidarietà, oggi affidata in massima parte al volontariato. Avremo bisogno di uno stato più equo che permetta agli uomini e alle donne di svolgere la parte che compete loro – il lavoro, la professione – all’interno della comunità, senza invadere il campo in cui si esplicano mansioni che spettano ad altri. Avremo bisogno che la buona Politica riaffermi il suo primato e compia due cose semplicissime: il rispetto prioritario della realtà sull’ideologia e sulla ricerca del consenso, primo umile dovere della Politica, e secondariamente di capire l’evidenza che certi “grandi equilibri” si sono rotti e che sono i più deboli a soffrirne.
È l’ora della solidarietà. L’Europa ci aiuterà. L’ostilità della BCE non durerà e l’indifferenza di certi paesi diminuirà nella misura in cui noi resteremo sordi alle ostinazioni delle zuffe tra governo e opposizioni, tra stato centrale e certe regioni che smaniano per sembrare protagoniste nella lotta contro l’epidemia, dopo aver diminuito i posti-letto negli ospedali e aver sperperato danaro pubblico in opere faraoniche; ci aiuteranno se sbaraglieremo la tracotanza di chi approfitta per lucrare su queste disgrazie, se sconfiggeremo il parassitismo di certa burocrazia, se combatteremo tutti i mali, uno dei più grandi misteri della vita.
È l’ora dell’eroismo. Sappiamo il lavoro immane, al limite della sopportazione fisica, a cui sono costretti i soccorritori, gli operatori sanitari, i medici degli ospedali e di famiglia, i volontari della Croce Rossa. Li conforta il nostro plauso, il nostro ringraziamento corale espresso dai balconi, il nostro sostegno morale.
È l’ora della concordia che non può limitarsi nell’esporre il tricolore. Sì, attorno ad esso ci stringeremo quando, terminata la minaccia, riempiremo le nostre piazze e canteremo assieme l’inno nazionale. Ma lo saremo ancor più quando saremo chiamati a pagare le tasse, quando dovremo applicare la difficile disciplina dell’austerità se essa servirà a far rispettare regole. Ad una condizione imperativa: che si applichi il rigore della spesa là dove essa non crea sviluppo.
È l’ora del coraggio. La pandemia ci fa apprendere a fondo il senso tragico della vita, ma questo tesoro di lacrime e di sacrifici contiene “il rischio terribile dello scetticismo”, come scriveva Maritain. Questo scetticismo sarebbe il becchino del nostro Paese se non sarà accompagnato da un rinnovamento del nostro stile di vita. I cristiani sanno che “la nostra anima conta sul Signore più che le sentinelle non contino sull’aurora” e sanno che non possono essere esonerati dalle prove, dalla sofferenza. Non hanno il monopolio della solidarietà perché anche molti non credenti danno ogni giorno prova di umanità e di onestà. Solidarietà, eroismo, concordia, coraggio, coniugati con la speranza, possono vincere ogni male.
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