«[…] L’attuale malattia, pur avendo sotto certi riguardi, rapporti colla comune influenza, non si può assolutamente confondere con essa».
Con questa precisazione, si apriva un lungo intervento del dottor Felice Parodi, direttore dell’Ospedale di Cittiglio, pubblicato nella pagina dedicata alle notizie locali della «Cronaca Prealpina». Era il 3 ottobre del 1918.
Continuando a far chiarezza, il dottor Parodi invitava a riflettere sull’uso di quell’aggettivo, «spagnola», appiccicato nel linguaggio comune ad una epidemia:
«Il bollare come merce spagnola questo morbo per il solo fatto che la prima epidemia Europea fu segnalata in Spagna è assurdo come l’asserire che tutte le stoffe che vengono dalla Inghilterra sono inglesi o che tutti i neri che si mostrano sulle piazze sono Africani».
Fino a quando gli scienziati non avessero definito la natura della malattia, sarebbe stato più corretto, secondo il nostro medico, denominarla, più genericamente, «febbre epidemica contagiosa».
Solo due giorni prima, il quotidiano varesino aveva dato notizia della «febbre spagnola». Ne aveva dato notizia sempre nella cronaca cittadina, ché la prima pagina era ancora tutta dedicata agli eventi di quella Grande guerra che stava volgendo al termine. Ed aveva dovuto darne notizia sollecitato dall’allarmismo che la diffusione della malattia andava generando. Anche a Varese.
«La così detta febbre spagnuola, che si è diffusa rapidamente un po’ dappertutto, ha fatto la sua comparsa anche da noi, ma fortunatamente essa si presenta con caratteri benigni, e tali da non destare alcuna seria apprensione. Nella grandissima maggioranza dei casi, infatti, il decorso della malattia è breve, la febbre non raggiunge limiti troppo elevati e non seguono le complicazioni che sono sempre le più pericolose. […] Il numero complessivo dei decessi si mantiene pressoché uguale a quello degli scorsi mesi e cioè in una media di dieci ogni settimana, compresi in questo numero i morti negli ospedali militari. Ciò diciamo per dimostrare che sono assolutamente infondate le voci allarmistiche messe in giro e che non c’è ragione alcuna di allarmarsi».
Benché il giornale si proponesse di tranquillizzare gli animi, nello stesso articolo si segnalava la penuria di personale medico, che peraltro, a quel tempo, non aveva la possibilità di raggiungere velocemente i bisognosi di cure. A tal proposito venne lanciato un invito alle autorità locali, affinché queste mettessero delle automobili a disposizione dei medici (cosa che più tardi avvenne). In assenza, poi, di cure certe e scientificamente validate, si suggeriva di fare ricorso al chinino, conosciuto in Europa dal XVII secolo ed ampiamente utilizzato, ancora durante il secondo conflitto mondiale, per contrastare le febbri malariche. È superfluo aggiungere che, nell’autunno del 1918, il chinino era diventato merce rara, per l’aumento della domanda a fronte del diffondersi dell’epidemia.
In conclusione, sosteneva il giornale, «niente di nuovo»: la febbre, che si diffondeva in Europa, era una delle tante forme influenzali. Come quella che anche Varese aveva conosciuto nel 1890.
Mentre la stampa locale cercava di tranquillizzare la popolazione, nello stesso giorno il Comune provvedeva ad emanare le prime disposizioni precauzionali: innanzitutto, la disinfezione dei luoghi pubblici e privati (veniva raccomandato l’uso di una soluzione acquosa di lisoformio, timoformio o creolina al 5-10% o di sublimato corrosivo al 5 per mille). Alle sale cinematografiche, ad esempio, fu imposta la disinfezione al termine di ogni proiezione.
Con il proliferare del contagio, dalla Capitale fu raccomandata l’osservanza di norme igieniche, composte in un decalogo, riproposto dalla «Cronaca Prealpina» il 4 ottobre:
«1) Servirsi il meno possibile di comuni mezzi di trasporto […]. 2) Evitare di viaggiare senza necessità assoluta […]. 3) Non frequentare luoghi dove sono riunite molte persone. 4) Evitare di avvicinare ammalati di influenza […]. 5) Usarsi ogni riguardo nella assistenza dei malati della propria famiglia, procurando di non avere il minimo contatto con gli oggetti di cui fanno uso. 6) Mantenere la persona secondo le regole più scrupolose dell’igiene […] 7) Disinfettarsi spesso le mani […]. Fare dei gargarismi abbondanti [per] preservare le mucose. 8) Sobrietà nelle bevande alcoliche […]. 9) Fare spesso dei bagni aggiungendo all’acqua una certa quantità di disinfettante […]. 10) Come cura preventiva è consigliabile prendere durante la giornata un poco di pastiglia di chinino di Stato.»
Intanto, l’apertura dell’anno scolastico veniva spostata al 21 ottobre. Pochi giorni dopo sarebbe stata ulteriormente posticipata alla data del 4 novembre e agli inizi di novembre, «a data da destinarsi».
Negli stessi giorni, la Giunta municipale di Busto Arsizio aveva fatto circolare norme pratiche per prevenire l’infezione e per la cura degli ammalati, compilate dal dottor Davide Brichetto, Ufficiale sanitario della città. Qui venivano anche descritti i sintomi, che accompagnavano l’insorgere della malattia:
«L’inizio è brusco, con febbre che s’innalza rapidamente, accompagnata di solito da corizza (irritazione della mucosa nasale), tosse stizzosa, dolori frontali, muscolari e soprattutto lombari. Talvolta si notano pure alterazioni gastriche, vomito, epitassi (sangue dal naso). Notevole è il malessere generale e spiccatissima la debolezza.»
Ieri come oggi, il contagio non risparmiava nessuno. Fu, la Spagnola, una malattia interclassista. A Varese, come nel suo circondario e nella regione tutta, furono colpiti i medici, i più esposti, come pure i dipendenti dei pubblici uffici. Il numero delle impiegate dell’ufficio centrale telefonico della città, ad esempio, si ritrovò ad essere dimezzato nella prima metà di ottobre, con inevitabili rallentamenti nell’erogazione del servizio.
Alla fine del mese di ottobre, il diffondersi del contagio costrinse alcune piccole aziende varesine a ridurre o a sospendere il lavoro e la stessa «Cronaca Prealpina» dovette dichiarare che
«il personale che ha dovuto lasciare il lavoro per rimanere a letto è già molto numeroso cosicché molti servizi – specialmente quello della distribuzione del giornale agli abbonati di città – procedono irregolarmente».
Anche la Chiesa ambrosiana dovette affrontare l’emergenza. L’Arcivescovo emanò una circolare con la quale caldeggiava una accurata disinfezione degli ambienti, la limitazione del numero dei partecipanti ai funerali, il periodico rinnovo dell’acqua benedetta, una attenta disposizione dei banchi riservati al pubblico delle funzioni religiose, in modo da garantire una distanza di sicurezza. Ma soprattutto, si leggeva nell’appello dell’autorità religiosa, bisognava aggrapparsi alla preghiera: «A peste, fame et bello libera nos Domine». Ci dispiace, tuttavia, dover rilevare che, né rispetto alla guerra né rispetto alla fame, quella preghiera era sembrata particolarmente efficace. E non sembrò di immediata efficacia nemmeno nei confronti della Spagnola.
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