Ho un amico medico in pensione. Accudisce il genitore rimastogli, svolge in privato un’attività specialistica, presiede una benemerita fondazione. Ho un altro amico medico in pensione. Milita nel volontariato, offre utili consigli a chi glieli domanda, è nonno in una famiglia numerosa, con nipoti cui badare. Tutt’e due dovrebbero alzare le barriere difensive contro il coronavirus, invece han deciso d’abbassarle: schierano la loro qualificata competenza a tutela degli altri. Rinunziando a privilegiare la sfera personale d’affetti e interessi, hanno offerto la disponibilità a tornare in corsia. Rispondono alla sirena dell’emergenza considerandolo dovere morale, chiamata sociale, obbligo istituzionale. Perché la sanità è un’istituzione. Non si ritengono eroi, ma cittadini appartenenti a una comunità. Se la crisi inguaia quest’insieme civico, ciascuno deve fare la sua parte per arginarla. Pur presentando la parte rischi elevati, su di essa fa aggio l’affinità di sentimenti. La pratica della fiducia (della fede) nell’umanità. Un esercizio che non prevede rassegnazione e indifferenza, e invece l’omaggio al principio di responsabilità.
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Ho un amico che abita in periferia. Tutt’attorno boschi, campagna, sentieri. Potrebbe effettuare uscite (esercizio raccomandato nel suo caso, per ragioni di salute) tenendo la distanza di legge da chi dovesse incontrare, pur se in quella selva è difficile, quasi impossibile, il vis-à-vis. Lo ha fatto una volta, un’altra ancora, poi basta. Spiega d’essersi sentito a disagio, titolare d’un privilegio ingiusto rispetto a chi vive in un appartamento nel centro della città e ne è prigioniero. Gente grande, gente piccola. Adulti, bambini. Paragonando la loro condizione alla sua, ha deciso che in nome del principio etico d’eguaglianza s’adeguerà alla situazione generale. Evasioni dal recinto domestico solo per fare la spesa d’alimentari, comprare farmaci, usufruire d’un servizio medico indifferibile. Non ritiene che la scelta sia altruistica, generosa, esemplare. La giudica normale, dignitosa, democratica. E’ dell’idea che chiunque al suo posto farebbe così. Deve far così, secondando il codice del cuore innanzitutto, e a seguire il resto della normativa. Si chiama coronavirtus.
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Ho un amico colpito da malanni vari, appena reduce dall’ulteriore esperienza ospedaliera. Era in attesa d’un nuovo intervento chirurgico, gliel’hanno rimandato. Freschi e crudeli guai l’affliggono. Il peggiore: la vista che cala, conseguenza d’una disfunzione metabolica. Chiuso in casa da tempo, lo passava soprattutto guardando la televisione e leggendo. Due intrattenimenti oggi quasi impediti. Quando lo chiami al telefono per sapere come sta, ti toglie dalle ambasce non parlando di sé, e invece chiedendoti come sopporti le restrizioni, se ce la fai a provvedere per il necessario, in che modo reagiscono i nipotini costretti alla scuola a distanza. Mai una parola di doglianza, e invece molte di rassicurazione: il momentaccio passerà. Bisogna crederci, come quando si corre una maratona, mancano pochi chilometri all’arrivo, ti senti senza più forze e dài per imminente l’amen del ritiro. Invece no. All’improvviso spunta lo striscione dell’ultimo chilometro e trovi le energie per arrivare al traguardo. Eccolo lì, dove non speravi più di vederlo.
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A margine. Questi miei amici sono nostri amici. Amici di tutti. Sono come tanti vostri amici. Sanno che la peste della società è sempre stato l’egoismo. Sanno che gli tocca adoperarsi perché il contagio, questo contagio, non si diffonda. Sanno che vivere in un deserto d’empatia è la condanna all’incubo. Sanno, e se non lo sanno è come se lo sapessero, che Orazio giudica l’amico animae dimidium meae, metà dell’anima mia. Sanno, e se non lo sanno è come se lo sapessero, che Gesù disse: “Ero solo e siete venuti a farmi compagnia”. Che amicone, quel tipo chiamato Gesù.
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